lunedì 5 giugno 2023

Abiti su misura per fisici speciali


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Luna Joie da Pexels


Due mesi e sei tappe dopo quel mio primo giorno di lavoro al chiosco dei dolciumi, Demi mi comunicò che ero pronto per fare un tentativo di passeggiata in città. Non da solo s'intende. Quello era un lusso che non potevo ancora permettermi.
Io non mi sentivo pronto, non dopo l'incidente di tre settimane prima, ma avevo troppa voglia di vedere qualcosa di diverso dai caravan e dal tendone e dalle solite facce.
Amaltea, che ovviamente mi avrebbe accompagnato in quella passeggiata, lei che col suo suo flauto di Pan era in grado di placare ogni bestia, me compreso, me l'annunciò in un modo diverso.
– Alzati, novellino – disse allegramente, le mani puntate ai fianchi, già pronta con i finti stivali che coprivano gli zoccoli caprini sotto la gonna da gitana. – Ti porto in un altro mondo!
E un altro mondo lo era davvero, il posto in cui andammo. Lei, io, Tom l'uomo-lupo con il gonnellone a coprire coda e zampe canine e un baschetto calcato sulle sue altre orecchie, Shara la serpe, con la tuta azzurrina squamata come la sua pelle, che non si capiva dove finiva l'una e iniziava l'altra, Magnus l'uomo più forte del mondo, non so se sia vero ma di certo avere due braccia in più aiutava, anche se in pubblico le teneva sempre nascoste, e una donna velata da capo a piedi, che non avevo mai visto sebbene fossi entrato a far parte del circo dei mostri da diversi mesi.
Supposi che lei dovesse essere arrivata solo di recente, dopo di me. La sua ritrosia a mostrarsi, anche prima di allontanarci dal campo dove avevamo piantato le tende e di attraversare vie cittadine fortunatamente poco affollate, confermò la mia deduzione: non era ancora abituata a essere tra amici che non l'avrebbero giudicata per il suo aspetto, per quanto bizzarro esso fosse.
Donna velata a parte, tutti gli altri sembravano scelti apposta per trattenermi o mettermi fuori combattimento, in caso le cose si fossero messe male.
Avrei dovuto sentirmi offeso, e invece ero sollevato.
L'altro mondo che Amaltea mi aveva preannunciato, però, non erano le strade di città, sebbene già queste mi sembrassero tutto un altro mondo rispetto a quello in cui avevo vissuto negli ultimi tempi.
Alla guida del gruppo, Amaltea si fermò davanti alla porta di un negozio che recava l'insegna "Il filo di Arianna", controllò che ci fossimo tutti, diede le ultime raccomandazioni, ed entrò.
Lo scampanellio forte e improvviso quando aprì la porta mi fece trasalire. La cosa che chiamavo il mostro dentro di me sussultò. Lo avevo avvertito teso e sveglio ogni volta che qualcuno ci incrociava per strada, ma concentrarmi sul respiro e ignorare i passanti fino a quel momento era bastato.
– A posto? – mi chiese Tom, che mi si era affiancato nel notare la mia reazione al rumore, che probabilmente infastidiva anche lui ma per un motivo diverso.
Un altro respiro, e la sensazione fu passata.
– Sì. Sto bene, non c'è bisogno che mi stai addosso.
Tom fece spallucce. – Come vuoi. Però se il tuo amico comincia a fare i capricci dimmelo, che non ci metto niente a buttarti a terra. Te lo ricordi, no?
Mi venne da ridere, un po' per il suo tono amichevole, graffiante e ironico, e un po' perché mi ricordavo quanto poco ci metteva a scattare in un placcaggio, se provocato.
Colpa mia quella volta, e non del mostro.
Mi affrettai a seguirlo nel locale illuminato da grandi lampadari. Dietro di noi, solo la donna velata.
Un rintocco regolare attirò il mio sguardo verso la parete di sinistra, dove tra scaffali ingombri di rotoli di stoffa colorata una pendola scandiva il tempo di quel mondo a parte. Qua e là qualche manichino da sarto, vestito o meno, se ne stava ritto sul suo palo privo di gambe, testa o braccia, mentre a destra erano appesi abiti già pronti abiti da donna e competi da uomo, e sulla parete di fondo era addossata una cassettiera di legno alta fino al soffitto, che indovinai contenere nei cassetti di dimensioni diverse incastrati come in un mosaico geometrico rocchetti di filo e bottoni di varie forme e colori. Attorno ai tavoli ingombri molte donne e qualche uomo, nei cui tratti ravvisai una somiglianza che li identificava come parte della stessa famiglia, lavoravano a misurare, tagliare, cucire e ricamare la stoffa fino a fare di pezze informi un'opera d'arte.
Al nostro ingresso, una donna che cantava a fior di labbra mentre spingeva il tessuto sotto l'ago di una macchina da cucire si interruppe e alzò la testa.
– Amaltea! – esclamò allegra, e si alzò per andare ad abbracciarla. – Non mi dire... è già passato un anno?
– Di più, mia cara, di più! – replicò la gitana, che dopo aver ricambiato l'abbraccio si girò verso di noi. – È stato un anno intenso, questo.
– Vedo due volti nuovi, infatti – commentò la sarta nello scrutarci.
Ma Amaltea scosse la testa e replicò, indicandomi. – Uno solo, in effetti.
Mi sentii un po' a disagio quando notai che anche gli altri si erano fermati a guardarci. Ebbi l'impressione che tutti quanti lì sapessero che cosa nascondevamo sotto le gonne, i cappelli e i vestiti larghi, ma guardando meglio capii che non ci fissavano con la curiosità morbosa dovuta a un fenomeno da baraccone, ma col calore con cui si accoglie un amico ritrovato.
– Lei è Meneides – continuò Amaltea. – Ne avrai sentito parlare.
– La fanciulla del labirinto degli specchi! – esclamò una ragazza di non più di sedici anni, che si affiancò alla donna. – Posso vedere?
Dopo un lieve cenno del capo, la donna velata scostò il mantello con mani dalla carnagione tendente al porpora, poi sollevò il velo sul capo. Il suo volto tondo e pieno, dalle guance gonfie, le orecchie grandi e sfrangiate e il naso piccolo conferivano alla sua faccia caratteristiche vagamente feline, ma il vero colpo di scena giunse quando sciolse la fascia che le copriva la fronte, rivelando un secondo paio d'occhi identici ai primi, forse appena più piccoli.
– Uao! – esclamò la ragazza, barcollando. – È davvero come vederti in uno specchio deformante, non riesco... – Chiuse gli occhi e scosse la testa, riguadagnando l'equilibrio. – Scusa, non riesco a guardarti.
La capivo. Io stesso mi sentivo stordito e malfermo sulle gambe mentre la guardavo in viso, come se fossi stato ubriaco.
La donna velata, Meneides, rise. Una risata sottovoce, lieve come le sue parole. – Non temere. Nessuno ci riesce, faccio sempre questo effetto alle persone... è il mio potere.
Mentre si rimetteva la fascia e il mio stordimento svaniva, mi resi conto che in fondo anche lei avrebbe potuto fermarmi, o almeno rallentarmi, in caso di necessità.
– L'abito bianco che ti ho chiesto l'altra volta, te lo ricordi Robinia? – intervenne Amaltea, nell'accompagnare la sarta verso uno dei tavoli. – Era per Meneides, e le sta splendidamente, ma vorremmo qualcosa di più adeguato per esaltare l'effetto generale, per questo l'ho convinta a uscire dalla sua tana di specchi e farsi dare un'occhiata...
Persi il filo del discorso quando la ragazzina, dopo aver scambiato qualche parola con gli altri che mi accompagnavano, si fermò di fronte a me e mi scrutò con attenzione. Dopo un po', forse a un segnale di disagio del mio sopracciglio sollevato, Si decise a presentarsi.
– Io sono Arella, ma qualcuno mi chiama Aracne. So creare un filo con la mia saliva, vuoi vedere?
– Mmmh... magari un'altra volta.
Un ragazzo giovane intento a riportare il profilo di un cartamodello su uno scampolo di lino grigio, forse il fratello o un cugino, alzò la testa dal suo lavoro e mi disse: – Dovresti vedere quando lo fa colorato!
Lei gli fece una linguaccia, gli diede la schiena e proseguì: – Potevo andarmene via col circo di Antares, se non fossi stata più utile qui. Magari prima o poi ci verrò. Dev'essere bello girare il mondo. E il tuo segno particolare qual è?
– Segno particolare?
– Sì, il tuo talento, la tua anomalia, quello che ti ha fatto finire al circo di Antares, insomma.
Non avevo molta voglia di risponderle, ma forse se avessi soddisfatto la sua curiosità, com'era successo con Meneides, lei poi si sarebbe stufata di me e mi avrebbe lasciato in pace, andandosene a cercare qualcos'altro che potesse attirare il suo interesse. Perciò le diedi la spiegazione più semplice che avevo.
– Se mi arrabbio la gente muore.
– Intendi... lo fai con la mente?
– No.
– Ma... ti si gonfiano i muscoli?
– No.
– La pelle cambia colore?
– No.
– Ti spuntano corna? Zanne? Artigli? Tentacoli?
Dovetti rispondere anche a quelle domande con una serie di no.
– Che noia. – Borbottò Arella. – Quindi, se ti arrabbi, uccidi le persone in modo normale.
La mia era stata un'esagerazione, non avevo ancora ucciso nessuno, a dire il vero. Mi ero lasciato solo dietro un sacco di feriti e contusi, ma non dubitavo che se Magnus non fosse stato in zona per darmi una botta in testa, prima o poi ci sarebbe scappato il morto, o anche più di uno.
Facendo una faccia delusa, Arella si girò verso Amaltea e gli altri. – Com'è che questo qui è con voi e non in prigione o al manicomio?
– Tesoro, nessuna prigione potrebbe contenerlo, se dovesse avere una delle sue... crisi – rispose Amaltea con un sorriso enigmatico. – Quanto al manicomio, da noi è molto più divertente, vero?
– Confermo – soggiunsi, scoprendo appena i denti. In realtà non avevo mai provato l'alternativa. – Dunque è da qui che vengono tutti gli abiti per gli spettacoli?
Se non potevo liberarmi di lei, tanto valeva sfruttare la sua parlantina inarrestabile per ricavarne informazioni.
– Oh, sì – confermò Arella. – E anche i vestiti di tutti i giorni, e gli accessori per girare in incognito in città... tutto quanto. D'altra parte siamo i soli a cui Antares può rivolgersi per gli abiti su misura per fisici speciali e corporature non del tutto antropomorfe.
– Abbiamo anche altri clienti, s'intende – s'intromise una donna, che col rapido scivolare di una forbice tagliava strisce di una stoffa a fiori. – Ma non è divertente come trovare la soluzione giusta per vestire voialtri.
Una pioggia di bottoni caduti a terra attirò il suo sguardo verso un bambino che aveva rovesciato un cassetto in fondo al locale, e che sedutosi a terra iniziò a rimescolarli e a lanciarli in giro con le manine.
– Nino, quante volte ti ho detto di non giocare con i bottoni! – lo rimproverò la donna, che abbandonò il lavoro per precipitarsi da lei, e io non potei chiedere altro sulle "soluzioni giuste" a cui aveva accennato.
Anche perché Arella riprese a darmi spiegazioni mai richieste. – La mia bisnonna, che ha fondato l'attività, l'ha chiamata "Il filo di Arianna" perché da quanto si racconta in famiglia, il suo primo cliente dal circo di Antares era molto simile al Minotauro delle leggende. E anche perché lei si chiamava Arianna.
Ero un po' distratto perché a quel punto Amaltea, dopo aver sistemato Meneides e un paio degli altri che ci accompagnavano, sembrava intenta a chiedere a Robinia di rinnovare il guardaroba anche a me, senza che io avessi voce in capitolo. Ma una cosa, del discorso di Arella, scavò una galleria nella mia mente fino a raggiungere la consapevolezza, mentre lei era già andata avanti a narrare la storia di famiglia.
– Un momento, hai detto Il circo di Antares? Lui c'era già all'epoca della tua bisnonna?
Non mi pareva possibile. Vero, se mi avessero chiesto la sua età non avrei nemmeno potuto azzardare un'ipotesi, e non perché non dimostrava gli anni che aveva, ma perché proprio non riuscivo a ricordare che aspetto avesse. Perfino il suo genere era un mistero, anche se spesso, per praticità, io e altri ci riferivamo ad Antares al maschile.
Arella si strinse nelle spalle. – Forse era un altro Antares, e quello di adesso ha preso il nome di quello prima. O forse è lo stesso, e vivere tanto a lungo è il suo segno particolare.
Uno tra i tanti, aggiunsi mentalmente, e mi chiesi per qualche istante se assieme all'inconoscibilità e all'onniscienza fosse da annoverare anche l'immortalità o una più banale estrema longevità.
Ma il mio rimuginare non durò a lungo poiché Robinia mi chiamò per prendermi le misure e allora sì che dovetti faticare non poco per trattenere il mostro che avevo dentro, che bramava più di ogni altra cosa sbranare qualcuno, uno qualunque tra i sarti in quella sala, pur di porre fine a quella tortura.

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