giovedì 18 novembre 2021

Sotto stelle di un altro cielo


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Dominika Roseclay da Pexels


L'odore era diverso. Non so se fossero i nostri corpi alieni, o la composizione dell'atmosfera, o chissà che altro, ma il profumo del mare era nettamente diverso dal sentore salmastro che avevamo imparato a conoscere nelle nostre vite di prima. Era più dolce, con un lieve accenno di mela, e aromatico come le foglie di alloro nell'arrosto della domenica. Lo sciabordio della risacca però era esattamente lo stesso, con lo scroscio frizzante quando l'onda che avanza si rompe, e quel lieve risucchio subito soffocato dal rombo della successiva. Persino i richiami sgraziati degli animali che si aggiravano per la spiaggia, quei quadrupedi dalla pelle verdolina, traslucida come giada, il muso allungato e il corpo che terminava in una coda di delfino, sembravano quasi ricordare il verso dei gabbiani, tanto che chiudendo gli occhi e le narici si riusciva ad avere una vaga impressione di essere a casa. La casa di prima, intendo.
Ad occhi aperti no, non era possibile, perché il cielo notturno era un tripudio di stelle quali non s'erano mai viste sulla Terra, così tante che sarebbe stato impossibile cercare le costellazioni che avevo conosciuto da bambina. E anche se fossero state di meno, quello era un cielo diverso, un'altra galassia. Nessuna luna sopra di noi, bensì i frammenti lucenti della vicina fascia di asteroidi, che si muovevano tra noi e le stelle, oscurandole.
– Stanno arrivando – bisbigliò la ragazza al mio fianco, distogliendomi dalla contemplazione del cielo che mi chiamava come una sirena. Sbirciai i miei compagni, poi abbassai lo sguardo alla spiaggia.
Eravamo in quattro, sdraiati pancia in sotto sul promontorio, più o meno la metà del nostro gruppetto di esuli dalla Terra. Gli altri non avevano voluto seguirci, perché non avremmo dovuto essere lì, ma che cosa potevano farci, rimandarci indietro? Questi alieni, la nostra gente, non avevano attraversato distanze intergalattiche per tornare a prenderci per poi abbandonarci di nuovo.
Alla luce delle stelle e degli asteroidi vidi le vysia dai corpi trasparenti emergere dalle onde. Dapprima, sembrò che l'acqua stessa si sollevasse a formare quattro o cinque teste bulbose, poi emersero le spalle, il torso e le braccia, e infine le vedemmo camminare incontro alle nostre insegnanti. Da lontano, le vysia non sembravano così repellenti.
Al loro fianco emersero alcune figure molto più piccole, dalla pelle traslucida come quarzo rosa, malferme sulle gambette esili, con la testa troppo grande e le braccia sottili dondolanti. Parevano strane meduse, poiché uno strato di piante marine simili ad alghe ricciolute e rosse ricoprivano i loro arti.
Erano bambini. Non avevamo mai visto i bambini di questo mondo.
– Sono così strani – mormorò Ameyhios, che sbirciava solo di tanto in tanto, faticando a vincere il suo ribrezzo per le vysia.
– Ci pensate? Saremmo potuti crescere così anche noi – trillò Ealeeriri.
Ci pensammo, sì. O almeno, io ci pensai.
Se la nostra gente non avesse temuto che la vita sul nostro pianeta natale fosse stata sul punto di giungere al termine, a causa di un evento di cui nemmeno volevano parlare, non ci avrebbero inviato a crescere altrove come semi sparsi dal vento su isole lontane, e così noi non avremmo mai conosciuto altri mondi, altri corpi, altri profumi e altri modi di vivere. A pericolo scampato erano tornati a prenderci, noi e tutti gli altri esuli su decine di pianeti abitabili in chissà quante galassie. Ci avevano riportato sul pianeta e ci stavano insegnando che cosa significava far parte del Seleeriewn, ma ancora faticavamo ad ambientarci e a considerare quel luogo la nostra casa.

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