giovedì 12 maggio 2022

Parole perdute


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Foto di Jimmy Chan da Pexels


Sono sicuro che conoscete la sensazione di aver smarrito una parola, da qualche parte nei meandri della vostra mente. Di essere lì lì per recuperarla, ma di non riuscire ad afferrarla del tutto, di sapere esattamente quel che volete dire, ma non come dirlo. Quel che si definisce, comunemente, "avere una parola sulla punta della lingua", sebbene in realtà non è tra le papille gustative che si è incastrata la malandrina che vi sfugge. Di certo l'avrete provata almeno una volta nella vita questa sensazione, se non molte di più.
Talvolta, a distanza di minuti o anche di ore, vi sarà capitato di ricordare la giusta sequenza di lettere che intendevate pronunciare in quel discorso ormai abbandonato, e che probabilmente lì per lì avrete sostituito con un generico "la cosa", spiegando in breve a cosa serve o come è fatta per farvi intendere. In altri casi, a un certo punto avrete smesso di pensarci, troppo presi dagli affanni della vita. E quella parola, quella che non siete riusciti a recuperare, si è davvero perduta per sempre.
È scomparsa. Svanita dai dizionari, dai libri e dalla mente delle persone.
Lo so, non ci credete. Allora fate una prova. Cercate in un dizionario, uno qualunque, il verbo "sbontecare". Nessun risultato, vero? Oppure cercate "lassuelo". O "storporato". O ancora "combeloria".
Se non ci riuscite, se non vi dicono niente pur sembrando a tutti gli effetti parole della nostra lingua, è perché tutte queste parole, un giorno, sono state perdute da qualcuno, e sono state perdute per tutti.
Come faccio io a conoscerle? Per dirvelo, devo prima raccontarvi la mia storia.
Ho avuto anch'io, come tutti, la mia dose di parole sulla punta della lingua. Ma che alla fine le ricordassi o meno, non mi è mai importato. Erano solo parole. Finché quello sulla punta della lingua non è stato il nome di una persona. Qualcuno che per me era stato importante, qualcuno che era uscito dalla mia vita all'improvviso, ma che a distanza di anni, dopo storie disastrose e brevi solitudini, sentivo il bisogno di ricontattare. Se non altro, per concludere quella storia come si deve, se proprio non c'era alcuna possibilità di riprenderla da dove l'avevamo lasciata. Perché sentivo che era rimasta aperta, ed era quella possibilità ancora in sospeso che stava rovinando tutte le altre.
Non c'era confronto. Nessuna era paragonabile a lei. Lei... che continuavo a chiamare soltanto con quel pronome, "lei", perché per quanto mi sforzassi, non riuscivo a ricordare il suo nome. E senza il suo nome, non c'era possibilità alcuna di ritrovarla, di scoprire in quale parte del mondo vivesse, tanti anni dopo il nostro ultimo incontro.
Non starò a raccontarvi di tutti i giri che feci presso amici e conoscenti per estorcere a loro il nome che era svanito dalla mia mente. I più non la ricordavano nemmeno, e quelli che si rammentavano di lei, non seppero dirmi come si chiamava o dove si fosse trasferita. Fu allora che cominciai la mia ricerca sulle parole perdute. Dapprima con esercizi per potenziare la memoria, per recuperare ricordi sepolti sotto strati di ciarpame, o per rilassarsi e lasciare che le parole venissero a galla da sé, senza sforzo.
Provai di tutto. Senza successo.
Finché non trovai, in un volume oscuro di un autore sconosciuto, un riferimento a un luogo che si diceva avere un effetto prodigioso sulla memoria di singole parole. L'autore indicava una foresta nel cuore della taiga, con tanto di coordinate e istruzioni per raggiungerla.
Feci i bagagli e partii. Avevo tentato di tutto, tanto valeva provare anche quello.
Imbacuccato in un giaccone pesante per difendermi dal freddo che mi condensava il respiro in nuvolette di vapore, risalii il torrente che scorreva tra i tronchi di pini e abeti secolari. Tra i loro rami cantava uno stormo di merli, e da qualche parte un cervo lanciava i suoi richiami d'amore, e di sfida ai rivali.
Mi ficcai le mani più in profondità nelle tasche. Faceva davvero freddo per quella che da queste parti viene considerata la bella stagione. Esalazioni pungenti di resina fresca dalle scaglie cadute da un pino mi fecero prudere il naso intirizzito.
Ma non mi diedi per vinto, e proseguii, facendo leva sulle gambe stanche. Proseguii anche quando il gorgoglio del ruscello e il canto dei merli mi parvero acquisire un senso, quasi fossero, invece di versi e suoni casuali, parole di senso compiuto. Ma non riuscii ad afferrarle, non riuscii a decifrarle.
Non almeno finché non mi appoggiai al tronco di un abete per riposarmi. Allora, come quando dalla punta della lingua sale alla mente quella parola a lungo cercata, rimembrai una parola che ero certo di non aver mai sentito: lascofante. E ne ero certo, sapevo che quella era una parola reale, o almeno lo era stata finché qualcuno non l'aveva perduta. La conoscevo, e conoscevo anche il suo significato, io e nessun altro al mondo. Toccai un altro albero, ed ecco un'altra parola. Tofanare. E poi evendio, e solcamido, e ingelcotato. Ogni albero della taiga era una parola perduta.
Non so come sia stato possibile, come quella foresta di parole abbia preso vita in quel luogo sperduto del pianeta. Se ci pensate, non è così strano. È agli alberi che affidiamo le nostre parole quando le scriviamo sulla carta. Questi hanno soltanto il vantaggio di conservarle da vivi.
Da allora vivo qui, nella gelida taiga, l'unico custode delle parole dimenticate, che raccolgo dalla corteccia albero dopo albero.
Ma quel nome, quello che sono venuto a cercare, ancora non l'ho trovato.

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