lunedì 9 maggio 2022

Croste di focaccia e unicorni


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Gareth Willey da Pexels


Giuro sui sette dei che non sono mai stato schizzinoso, da bambino. Mi ricordo anzi che mi mettevo in bocca di tutto, anche cose poco commestibili come un aspro frutto di aglar che ancora doveva maturare, o lo stufato colloso e assai troppo speziato di nonna Hilda, che poi nessuno ha mai saputo di che carne fosse fatto e forse è stato meglio così. Non era mia abitudine lasciare cibo nel piatto, anche a costo di scoppiare. Sensazione che avevo provato piuttosto raramente, dato che possedevo uno stomaco senza fondo e una famiglia senza fondi. Non che abbia mai patito la fame, di questo non posso lamentarmi, ma nemmeno sono stato mai vergognosamente satollo. Il più delle volte leccavo anche il piatto, fino a renderlo quasi più lustro di com'era stato estratto dalla dispensa.
Adesso che sono qui, abbandonato contro il tronco di un salice ad ascoltare il gioioso canto dei fringuelli che allieta la radura, non posso fare a meno di pensare alle tre croste di focaccia che ho lasciato nel piatto, più che per sazietà, per la fretta di partire per questa avventura. Le immagino ancora a casa, a invecchiare e rinsecchire su quel misero piattino, lasciate intatte quasi con rispetto dai miei numerosi fratelli e zii e cugini, in attesa del mio ritorno. Quanto vorrei averle qui con me, quelle tre croste di focaccia! Le sgranocchierei con gusto pur se vecchie di giorni e dure come sassi, tanto non sono mai stato schizzinoso. Il mio stomaco brontola, le mie budella si contorcono dal desiderio al solo pensiero.
Ma io sono bloccato qui in questa stupida landa di arcobaleni, scintillii e ruscelli zampillanti, e quel piatto tanto desiderabile è un miraggio troppo lontano.
Altre volte, mentre mi struggo dilaniato dalla fame, ripenso a quanto sono stati fortunati quelli che perdendosi nel bosco sono giunti a una casetta di marzapane. Affronterei una decina, ma che dico, un centinaio di streghe, pur di mettere le mani anzi, i denti e la lingua, su quel miracolo di edilizia dolciaria. Non mi lamenterei nemmeno se l'intera dimora mi crollasse addosso dopo aver azzannato un muro portante. Morirei felice, almeno, e con la pancia piena.
E invece no, noi dovevamo proprio perderci nel bosco e arrivare all'infame radura degli unicorni, un luogo terribile da cui non c'è ritorno. Oh, non lasciatevi fuorviare dai fiorellini profumati nei prati verdi, dal fruscio lieve del vento tra le fronde intrecciate l'una all'altra come in un dipinto, dai freschi ruscelli con le loro gaie cascatelle, dall'onnipresente dolce melodia degli uccellini che cinguettano tra le frasche, accompagnata a tratti da un misterioso magico arpeggio che si ode nell'aria. Qui nulla è reale, l'acqua non disseta e i frutti d'oro che pendono dai rami non saziano. Sì, sono dolci, non c'è che dire, buonissimi, tutt'altra cosa rispetto a un frutto di aglar acerbo o a una vecchia crosta di focaccia. Ma sono come aria nella pancia, che imperterrita continua a reclamare qualcosa di sostanzioso di cui nutrirsi. Lo so, ormai lo so, non c'è che un solo modo per sopravvivere nella radura degli unicorni: cedere alla magia di questo luogo, e diventare una creatura immaginaria. Solo così si può sperare di saziarsi brucando l'erba dei prati e addentando i frutti d'oro, e leccare la dissetante acqua zuccherina delle fonti.
L'ho visto accadere ai miei compagni di viaggio, uno alla volta.
Per primo ad Amos, che osò dire che se fosse stato un unicorno, forse questo posto non gli sarebbe sembrato così brutto. Inutile ricordargli che gli unicorni non esistevano da nessuna parte se non qui, appunto perché al pari di questo luogo, non erano reali. Detto fatto: al posto del nostro amico Amos c'era un cavalluccio bianco con un corno in fronte che se ne andava zampettando qua e là a sgranocchiare fili d'erba, nitrendo con gusto. Non ha più parlato, né dato segno di intendere quel che gli dicevamo, e in breve tempo ne abbiamo perso le tracce. Toccò poi a Delfo, e quindi a Folco, che preferirono un'esistenza immaginaria nella pelle di uno stolido unicorno piuttosto che patire un po' di fame. Herman sparì senza avvertire un giorno che eravamo addormentati, non so quanto tempo dopo, poiché qui è sempre giorno, un luminoso, limpido e tiepido giorno. Miro, stessa sorte, si addormentò uomo e si risvegliò equino munito di corno, chissà cosa aveva sognato. E Ruben, l'ultimo che era rimasto con me a condividere i morsi della fame, che aveva giurato e spergiurato "meglio morto di inedia che unicorno!", si è tramutato non troppo tempo fa con un luccichio d'arcobaleno e un riecheggiare d'arpa.
Sono rimasto da solo, qui, sotto le fronde di questo salice, a rimembrare con desiderio le mie tre croste di focaccia e a struggermi per non averle portate con me o mangiate quando ne avevo l'occasione. Lo so, non mi avrebbero salvato da questo splendido e irreale incubo.
La radura degli unicorni. Non cercatela, non c'è niente qui che valga la pena di essere trovato. Non esiste nemmeno, questo posto.
Ho troppa fame... quasi quasi mi mangio un po' d'erba.
Chissà perché non ci ho pensato prima.

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