giovedì 5 maggio 2022

Due bicchieri e una tazza di veleno


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Anastasia Zhenina da Pexels


Gli affari migliori si facevano nei posti peggiori, questo era un dato di fatto. Specialmente in una città come Arend, dove la vita notturna era molto attiva e non sempre si svolgeva dal lato giusto della legge. Tanto meglio. Un po' di illegalità era ciò di cui avevo bisogno nelle ore più buie della mia vita.
Alla periferia della città, dal lato opposto rispetto all'ufficio-prigione in cui fino al giorno prima avevo lavorato, in un vicolo maleodorante e buio si apriva l'ingresso scalcagnato di una taverna così vecchia e male in arnese da non avere più nemmeno un nome. I pochi che avevano la necessità di nominarla, e che per qualche motivo non potevano riferirsi ad essa come "al solito posto" o "là dove sai", la chiamavano in genere "La taverna del vicolo", oppure "La vecchia signora", per via di un'insegna le cui lettere erano ormai sbiadite da tempo, ma che conservava ancora sul legno marcito una sagoma di donna che avrebbe dovuto accompagnarle. Ci ero già stata qualche volta, perlopiù in cerca di traditori che valutassero più il mio oro che la loro lealtà a un uomo dai giorni contati. Era risaputo che quando un Bollatore ti dava la caccia eri un uomo finito. E io mi ero beata sovente dell'effetto che le insegne sulla mia giacca e i miei riconoscibilissimi capelli azzurri avevano sulla gente che conduceva una vita meno che onesta, del timore che potevo incutere, delle occhiate furtive e dei bisbigli ridotti al silenzio.
Ma non quella volta.
Erano anni che non spegnevo il chip-colore che alterava la tinta della mia chioma, e non riuscivo a riconoscermi con il mio colore naturale, un castano chiaro dai riflessi color topo. Lo odiavo. Tirai sulla testa il cappuccio di un mantello di feltro marrone, ruvido e scomodo, ma anonimo, ed entrai dalla porta mezza scardinata della vecchia signora, che si richiuse con un tonfo dietro di me. Nessuno interruppe i suoi bisbigli, nessuno mi rivolse più di una mezza occhiata o smise di giocare ai dadi o di scambiarsi somme di denaro per quelle che erano di sicuro attività illecite. Individuai il mio bersaglio al tavolo grande accanto al caminetto, circondato dai suoi sodali, a bere, gozzovigliare e ridere sguaiatamente. Erano la compagnia più rumorosa dell'intera taverna, difficile non accorgersi di loro.
Sotto al mantello, sfiorai il mio timbro da Bollatore. Lo avevo portato, com'ero solita fare, nella fondina alla cintura, sebbene fossi lì in veste tutt'altro che ufficiale.
Ignorai la smorfia seccata della cameriera che spazzava cenere e briciole sulle assi del pavimento davanti ai miei piedi, e mi avviai incontro a quella che mi auguravo essere la mia salvezza.
L'uomo dai riccioli neri e un velo di barba sul volto pieno, conosciuto come Mister Forse, fu il primo ad alzare gli occhi quando mi fermai davanti al loro tavolo. Diede una gomitata al tizio biondo, capelli cortissimi, giacca di un rosso sgargiante e un braccio sulle spalle di una brunetta dalla risata facile. Prima di costui, però, mi ritrovai addosso lo sguardo arcigno della sua guardia del corpo, uno spilungone ingessato con una cicatrice che scendeva dalla fronte alla guancia, sfiorando appena l'angolo dell'occhio sinistro. Era il famigerato Messer No, e a lui bastò schioccare due volte le dita, pur nella confusione che regnava attorno alla tavola, per attirare l'attenzione del biondo.
Quest'ultimo, ovvero la persona che ero venuta a incontrare, mi fissò brevemente dal basso, senza riconoscermi.
– Prova a un altro tavolo – mi disse infine. – Non faccio la carità, ragazza.
Replicai al suo commento condiscendente con un sorriso sfrontato. – Mai avuto bisogno di soldi, Signor Sì. – Tipico di una persona arrogante, darsi un soprannome che costringesse gli altri a giurare obbedienza ogni volta che lo chiamavano. – Se ricordo bene, e io ho una buona memoria, di solito sono io a elargirli qui dentro.
Più che le mie affermazioni, fu il timbro della mia voce a sortire il suo effetto. Già dalle prime parole il Signor Sì tolse il braccio dalle spalle della brunetta e si protese in avanti, a guardare meglio il mio volto sotto il cappuccio. Tirò un fischio e disse: – Ma guarda chi abbiamo qui, la famosa Maryna Hìevis, il Furetto dai Capelli Azzurri!
Al sentir pronunciare quel nome furono in parecchi a voltarsi e a fissarmi, e tanti saluti all'anonimato.
Afferrai una sedia libera da un tavolo vicino e mi sedetti a quello del Signor Sì e dei suoi compari.
– Come si sta dall'altra parte, tesoro? – ironizzò il biondo. – Il look da ricercata ti dona.
Strinsi i pugni sotto al tavolo. Speravo che quel brandello di informazione non fosse ancora di dominio pubblico, e invece la notizia si era diffusa più velocemente del previsto. Non persi tempo a dirgli che ero stata incastrata, quello lo dicevano tutti. Tirai fuori qualche moneta e la misi sul tavolo.
– Ne ho duemila per te se mi dai l'indirizzo del migliore falsificatore di firme in circolazione. Altrettanti per il tuo uomo, più altri mille per te se sarò soddisfatta del lavoro.
Non lo dissi, ma per soddisfatta io intendevo che il Signor Sì doveva condurmi al primo colpo al tizio che aveva usato la mia autorizzazione per l'ingresso al deposito bolli dell'ufficio-prigione di Arend proprio il giorno della grande fuga, quando tutti i criminali vecchi e nuovi erano stati liberati dalle loro minuscole celle. Ci avrei pensato io poi a cavargli di bocca il nome di chi lo aveva ingaggiato.
– Quattromila – replicò il Signor Sì, e in tono di voce roco e canzonatorio aggiunse: – Hai il fiato dei Bollatori sul collo, ragazza, non puoi permetterti di fare la schizzinosa.
– Quattromila, va bene – concessi, perché lui aveva ragione. Dovevo sbrigarmi a provare la mia innocenza, o non avrei avuto altre occasioni di farlo.
Il Signor Sì si allungò all'indietro, chiamò l'oste e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio. Il calore del fuoco che crepitava nel caminetto mi infastidiva, ma non quanto un'intera sala piena di persone senza scrupoli che non avevano molta simpatia per i Bollatori, e non vedevano l'ora di poter regolare i conti con uno di noi senza conseguenze. La mia caduta in disgrazia era proprio l'occasione che stavano aspettando, perciò ascoltai con attenzione i bisbigli più vicini, e scrutai la cameriera che ancora spazzava il pavimento a poca distanza dal nostro tavolo, girando ora da un lato ora dall'altro dei tavoli più vicini in un malcelato tentativo di ascoltare i nostri discorsi. Mi interruppi quando arrivò l'oste a posarmi di fronte il bicchiere.
– Gin, il tuo preferito. Offro io. Ho appena concluso un buon affare – annunciò il biondo, ridendo.
Afferrai lesta il suo bicchiere, versai il contenuto nel mio e poi divisi di nuovo il mix alcolico nei due calici. – Un brindisi? – gli chiesi, sollevando il mio bicchiere.
Fu lì che cominciai a capire che qualcosa non andava, perché il Signor Sì fece una smorfia schifata e spinse di lato il bicchiere che gli avevo restituito.
– Ah, io non lo bevo, capo – borbottò Mister Forse.
Sollevai il bicchiere che ormai non conteneva più un liquido del tutto trasparente, mischiato com'era al liquore color ocra del Signor Sì. – Peccato, sembra un'ottima annata – dissi, in tono divertito. – Qual è l'ingrediente segreto?
Come se non avessi appena rivelato che ero consapevole della trappola che mi avevano teso, presi dalla borsa sotto il mantello una cannuccia, la ficcai nel bicchiere e con quella succhiai un sorso del liquido. Non ero più un'apprendista, eppure avevo conservato quel vezzo dal tempo in cui lavoravo con Hashum il Lupo. In pochi sapevano che quella cannuccia di mia invenzione nascondeva una serie di filtri antiveleno, più uno che abbassava il grado alcolico delle bevande che trangugiavo. Molto utile per fingere di ubriacarsi e non esserlo affatto, ma al momento non era a quell'ultimo filtro che stavo affidando la mia vita.
Da un angolo della taverna provenne il rumore metallico di un coltello che veniva affilato. Bevvi un altro sorso, e un terzo, poi appoggiai il bicchiere sul tavolo, ondeggiai, e infine mi abbandonai sullo schienale della sedia. Messer No rivolse un cenno a qualcuno nell'ombra. Il rumore metallico cessò, e qualcuno si avvicinò a me di soppiatto da dietro.
O almeno, provò a farlo.
Quando sentii che era a portata di mano, mi alzai lesta, afferrai la sedia su cui stavo seduta fino a un istante prima e mentre l'energumeno caracollava in avanti per la sorpresa, compii una giravolta e la calai sulla sua schiena con tutta la forza che avevo, il che vuol dire molta di più di quella di cui disponeva una donna della mia taglia, considerando che indossavo un paio di polsiere acceleranti.
Estrarre dalla fondina il mio timbro da Bollatore e marchiare la sua nuca fu un attimo. Un lampo, e l'energumeno non c'era più. Al suo posto, raccolsi da terra un quadratino sottile che lo raffigurava.
Non so quale duevite avesse inventato la tecnologia, perché di certo doveva essere stato uno di noi, ma quella dei bolli era stata una trovata geniale. Le persone che infrangevano le regole venivano semplicemente tolte dalla circolazione e finivano in una sorta di animazione sospesa nel deposito bolli dell'ufficio-prigione. Nessuno spreco di spazio, di cibo per mantenere i prigionieri, e nessun corpo di cui disfarsi. Non serviva neanche più un tribunale, solo una richiesta di cattura da parte di un'autorità cittadina o regionale. E un Bollatore che si prendesse la briga di mettersi sulle tue tracce.
– Tutto a posto, gente, era sulla mia lista – annunciai in tono allegro, per tranquillizzare i clienti, l'oste e le cameriere che erano rimasti di sasso alla cattura. Quelli, almeno, che non se l'erano data a gambe rovesciando bicchieri e sbattendo la porta. Era piuttosto raro che una simile operazione avvenisse in mezzo alla gente, di solito chi sapeva di essere braccato fuggiva o si nascondeva alla vista di un Bollatore, quindi nessuno di coloro che erano rimasti si lamentò che non avevo seguito la procedura, o provò a chiedermi di mostrargli la richiesta di cattura. Non avevano idea che da quando ne era stata emanata una per me, tutte le catture che avevo in sospeso mi erano state tolte.
Mi trovavo proprio là, nell'ufficio-prigione, a registrare le mie ultime catture quand'era arrivata. Se mi ero salvata dall'essere bollata all'istante, era stato solo per merito di Nadir che mi aveva avvisato, e di Hashum il Lupo che aveva rifiutato di accettare la richiesta di cattura di un altro tra quelli che erano stati suoi apprendisti. L'ufficiale aveva perso tempo per andare in cerca di qualcuno che si prendesse l'incarico, e io non ero rimasta là a farmi trovare. Non sarei stata sorpresa se alla fine fosse stata Zondra a offrirsi per la mia cattura. E mi dispiaceva, mi dispiaceva immensamente che Hashum, il mio maestro, fosse stato portato a credere di aver fallito con un altro apprendista.
In piedi tra i pezzi di legno della sedia in frantumi, intascai il bollo e la cannuccia.
Il Signor Sì allargò le mani e fece spallucce. – Scusa, Furetto dai capelli non più azzurri, ma mi è già stata fatta un'offerta migliore.
La brunetta al suo fianco sghignazzò.
– Raddoppio la mia offerta – annunciai serafica, e rigirandomi tra le dita il timbro da Bollatore, aggiunsi: – E se non dovessi trovare la cifra sufficiente, potrei trovare io per te un posto nella mia lista.
Il Signor Sì sbiancò e deglutì a vuoto. Ricordavo quanto si fosse vantato, in un precedente incontro, di aver sempre camminato sulla sottile linea tra lecito e illecito, tale da non attirare mai sulla sua testa una richiesta di cattura, nemmeno per una detenzione temporanea. "Le persone più intelligenti tra noi sanno quando tirare la corda e quando mollarla per non essere buttati a gambe all'aria", aveva detto. "E io sono molto intelligente".
Per mia fortuna, non abbastanza da capire che non avevo inchiostro per un secondo timbro.

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