lunedì 2 maggio 2022

Soggetto da esperimenti


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Chokniti Khongchum da Pexels


Da quando sono nato, la mia vita è stata una continua serie di esami ed esperimenti. No, non è esatto dire che sono nato. Io sono stato creato.
La mia specie ha un altissimo fattore rigenerativo, il che è di notevole aiuto per un popolo che tende a mettersi in situazioni pericolose solo per testare i limiti del proprio fisico e della propria mente e documentare i risultati nel modo più dettagliato e preciso possibile, ma ciò che è stato fatto nel mio caso è estremo persino per noi.
Quattro volontari hanno donato un occhio ciascuno, e da quella materia organica, immersa in una soluzione di nutrienti e stimolata da apposite proteine con le necessarie istruzioni codificate, per mezzo del processo di rigenerazione mi sono formato io: un bambino con gli occhi da adulto. Una chimera, poiché nel mio corpo coesistono quattro sequenze di geni differenti. E questo particolare, per gli scienziati che mi hanno creato, era interessante da studiare quanto la mia creazione.
Intendiamoci, non mi lamento. Ritengo che esistere sia preferibile all'alternativa. Inoltre, per il precetto morale della trasparenza, ho pieno accesso a tutti i miei dati, e una volta che avrò soddisfatto la curiosità dei miei creatori, potrò decidere autonomamente che cosa fare della mia vita. Ma non è ancora giunto quel tempo, e ciò mi aggrada, poiché il mio interesse nel conoscere quanto più possibile su me stesso è pari a quello degli scienziati che mi stanno studiando, e in più di una occasione ho suggerito test ai quali non avevano pensato.
Che posso dire, sono un soggetto degno di nota. L'esperimento che mi ha dato vita non era mai stato tentato prima, e già il fatto che sia stato un successo ha prodotto un notevole avanzamento delle nostre conoscenze in campo medico e biologico.
Chissà cos'altro ne scaturirà negli anni a venire.
Negli ultimi tempi ho cambiato dimora molto di frequente, per via di una serie di esperimenti volti a indagare le reazioni del mio fisico agli ambienti più estremi del nostro pianeta. Ero stato nella fascia tropicale, dove il caldo e l'umidità erano asfissianti; ero stato in deserti di sale, in claustrofobiche grotte sotterranee e persino nei pressi di sorgenti solforose che avvelenavano l'aria con i loro miasmi.
Nessun luogo mi aveva impressionato come la distesa di ghiaccio della tundra gelata.
A vederla dall'alto, con i riflessi azzurrini sul suo manto candido, sembrava quasi bella. Al sicuro, nel ventre dell'aviotrasporto che ci aveva condotto fino alla stazione di studio numero 47, non dava affatto l'impressione di un luogo inospitale, ostile alla maggior parte delle forme di vita. La sua apparente uniformità, venata da crepacci e interrotta da spuntoni di ghiaccio che s'innalzavano frastagliati e taglienti come lame nella pianura, la facevano apparire ai miei occhi una pacifica, tranquilla meraviglia. Naturalmente, mi sbagliavo.
Lo capii il giorno in cui feci la mia prima uscita dal bunker sotterraneo che costituiva la mia nuova casa. Gli scienziati avevano scelto un giorno in cui le condizioni erano molto diverse rispetto a quelle che avevamo trovato al nostro arrivo. In quell'occasione il freddo pungente di una bella giornata di sole non aveva fatto in tempo a penetrare sotto ai miei abiti termici nel breve tragitto dall'aviotrasporto all'ingresso della stazione di studio.
Il mio primo impatto ufficiale con la tundra gelata invece avvenne in durante una bufera. Gli scienziati non avrebbero potuto trovare un momento migliore per mettere alla prova la mia resistenza e il mio orientamento. Flagellato dal vento che mi fischiava nelle orecchie e che minacciava di buttarmi a terra a ogni passo, la lenta avanzata verso il vecchio sito di ricerca che mi era stato mostrato nelle mappe fu lunga e penosa. Non era distante, e in una giornata serena ci sarei arrivato comodamente senza perdere di vista l'ingresso al bunker, ma la tormenta mi disorientò e mi portò fuori strada. Riuscii a raggiungere il sito compensando il mio errore non appena me ne resi conto, ma nonostante i miei calcoli esatti sul tempo impiegato e la distanza percorsa, quella passeggiata mi parve comunque eterna. Indossavo i guanti termici, eppure le mie dita erano intirizzite e rigide quando mi chinai a prelevare il campione di ghiaccio richiesto. Ritrovare l'ingresso del bunker con il vento che dalle mie spalle mi spronava a correre e a incespicare nei mucchi di neve, e fermarmi prima di superarlo, fu anche più faticoso.
Ero stato creato come soggetto da esperimenti, sì, ma non mi ero mai sentito un pezzo di carne in balia di forze più grandi di me, prima di quel momento.
Quando rientrai nella stazione di studio mi affrettai a sottopormi agli esami prima che l'effetto del gelo sopportato svanisse dal mio corpo, poi ebbi il tempo di esaminare il campione che avevo raccolto come prova di aver effettivamente raggiunto il sito che era il mio obiettivo. Incastonato nel ghiaccio trovai i minuscoli rami di una specie vegetale che mi era ignota. Ne chiesi notizia agli scienziati che stavano studiando i miei parametri vitali, e loro mi risposero con un codice molto simile a quello che identificava me come soggetto sperimentale, e che era diventato il mio nome.
I dati degli studi effettuati erano disponibili a tutti, perciò non ebbi difficoltà nel reperire informazioni sul vecchio progetto, ormai abbandonato, di creare una specie vegetale in grado di sopravvivere e prosperare nello strato di ghiaccio, e da cui gli scienziati avevano tentato di ricavare energia per alimentare le stazioni di studio disseminate nella tundra. Il progetto com'era stato inteso dai suoi creatori era stato un fallimento, ma la nuova specie era sopravvissuta e si era diffusa.
Quell'alga era responsabile dei riflessi azzurri che avevo visto dall'alto.
Oggi, a ripensarci, posso rintracciare in quella scoperta la genesi di un'idea che si fa sempre più concreta, man mano che il tempo del mio affrancamento si avvicina. In quell'alga abbandonata che nel tempo libero tra un test e l'altro studiai a mia volta, cercando un modo di riuscire là dove altri scienziati del mio popolo avevano fallito. Non ha importanza che fu un tentativo futile, ciò che conta fu che nel tempo che mi fu concesso mi presi cura di una creatura artificiale quanto me, con la quale condividevo la genesi in un laboratorio in vista di un preciso scopo. Eravamo due mostri che per caso si erano incontrati.
E forse, quando sarei stato anch'io il soggetto di uno studio abbandonato, avrei potuto cercarne altri, radunarli, proseguire nella ricerca della conoscenza che potevano fornire oppure, semplicemente... prendermene cura.

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