lunedì 9 ottobre 2023

Sott'acqua


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Evelyn Chong da Pexels


Ho sempre vissuto la mia vita come se fossi sott'acqua. Testa bassa, muto come un pesce, zitto e lavora, cerca di non farti notare.
Difficile, quando sei alto due metri e dieci e hai la pelle nera. Nella fabbrica di scatolette di tonno e sgombro, tra immigrati messicani, cinesi e indiani, io spiccavo come una goffa balena in un banco di merluzzi. Ero altrettanto innocuo, ma questo la gente non lo sapeva. Gli bastava guardarmi, per avere paura. E la gente che ha paura agisce in modi stupidi.
Questo lo sapevo per esperienza, per essere già capitato in situazioni brutte solo perché ero quello che ero. Ne avrei da raccontare, su quanto c'è da avere paura di chi ha paura di te, e in più ha un'arma, e in più ha la legge. Ma sono storie che appartengono ormai a un altro mondo, e altri le hanno raccontate meglio di me.
Io ti voglio parlare di quel giorno. Quello in cui tutto è cambiato. Il giorno della fine del mondo.
Gli hanno dato tanti nomi, ma per me resterà sempre il giorno della fine del mondo.
Ero di turno in fabbrica a lavorare quel giorno, come il giorno prima, quello del terremoto. La fabbrica era uno dei pochi posti in cui potevo stare tranquillo, in cui più mi sentivo come sott'acqua. Con le orecchie tappate dal frastuono dei macchinari non sentivo i commenti dei miei colleghi da altre nazioni, con gli occhi fissi al mio compito non mi accorgevo delle loro occhiate e delle loro espressioni, e nuotavo, le gambe e le braccia che si muovevano in maniera automatica in gesti ripetuti già milioni di volte, così che la mia testa, lassù in alto, leggera, era libera di pensare. Quasi non udii la sirena quando suonò l'allarme, mi svegliò dai miei pensieri la scossa sotto i miei piedi che si faceva più intensa, precipitandomi di colpo dall'acqua alla terra. Rimasi lì per una frazione di secondo, smarrito come una balena spiaggiata, poi il fuggi fuggi dei miei colleghi verso l'esterno e un frastuono di tipo diverso, un cozzare metallico delle linee dell'impianto, e il rovesciarsi di scatolette giù dagli scaffali, mi convinsero a prendere la stessa via già percorsa da altri. Nessuno, vedendomi lì imbambolato, aveva avuto il coraggio di venire a dirmi di fuggire; al contrario, quando toccò a me scorgere due dei ragazzi più giovani rimasti indietro, due fratelli filippini o forse vietnamiti che si erano rifugiati sotto i banchi da lavoro, li sollevai di peso e li portai fuori con me. Ci ritrovammo tutti in strada quel giorno, quello prima della fine del mondo, il giorno del terremoto. Confusi, spauriti, in attesa.
In attesa, sì, ma non sapevamo nemmeno noi di cosa.
Alla fine era solo un terremoto, non c'erano stati danni, e meno di un'ora dopo eravamo di nuovo tutti dentro a lavorare. Vero, qualche scossa d'assestamento c'era stata in serata, ma dopotutto, era normale, no?
Il giorno dopo, in fabbrica, eravamo di meno. Qualcuno si era dato malato, e i più scaltri ironizzavano sul fatto che avessero avuto paura del terremoto.
Non lo sapevamo, ma era già iniziato.
Di quelli che c'erano, fui il primo a sentirmi male. Non lo so perché, polmoni più grandi, forse, o forse ero semplicemente più sensibile al gas che si era liberato nell'aria. Mana lo chiamano adesso, ma allora non c'era un nome, non sapevamo nemmeno quale fosse la causa. Ricordo che la mia pelle iniziò a formicolare, e poi, prima che potessi chiedermi il perché di quella strana sensazione, il fastidio si trasformò in dolore. Alcuni mi dissero che fu come bruciare; per me, invece, furono punteruoli infilati nella carne. Urlai e caddi in ginocchio, e continuai a urlare, e urlare, e tutti si fecero indietro con occhi colmi di terrore, lontano dal mio braccio teso che chiedeva aiuto. Vedevo la mia pelle scura scintillare come cosparsa di stelle, ma non potevo dirlo, non riuscivo a spiegare che cosa avessi, mentre il dolore penetrava sempre più a fondo dentro di me.
Nessuno provò ad aiutarmi. Certo, io ero grande e grosso. Io facevo paura.
E un uomo della mia stazza che urlava in quella maniera era ancora più spaventoso.
Poi alle mie urla ne risposero altre, da altri reparti, e finalmente qualcuno si degnò di chiamare un'ambulanza.
Gli ospedali funzionavano ancora, grazie a Dio, ma quando arrivammo scoprii che erano sovraffollati da gente che aveva il nostro stesso morbo. Dolore, dolore straziante, improvviso, senza causa apparente.
Qualcuno, di quel dolore, era già morto. Altri, invece, pareva ne fossero deformati, ciascuno in un modo diverso. Nel mio caso, la mia pelle si stava facendo più spessa, come ricoperta di squame coriacee, scure alla luce e lucenti al buio. Uno dei due fratelli che avevo portato fuori il giorno prima, trasportato nella mia stessa ambulanza, stava invece mettendo le piume. Non scoprì fino a qualche giorno dopo la fine del mondo che conoscevamo che suo fratello era morto.
Era uno dei tanti che non aveva superato il Giorno delle Urla.
Quando iniziarono a fare un censimento dei sopravvissuti e a identificare che cos'erano diventati, io fuggii dal campo in cui mi avevano messo.
Sapevo cos'ero, e sapevo che avrebbero avuto ancora più paura di me quando lo avessero scoperto.

La fabbrica, come tante altre delle strutture di un tempo, era stata abbandonata. Era un luogo che conoscevo bene, pieno di posti dove nascondersi, e con una scorta sufficiente di cibo a lunga conservazione, sebbene un po' monotono, ma sapevo come integrare la mia dieta. Per anni la fabbrica fu la mia base, e il quartiere lì attorno, il mio territorio di caccia. No, non mangiavo esseri umani, contrariamente a quanto raccontano le storie. E non solo perché di veri esseri umani dopo la fine del mondo non ne avevo più visti, prima che arrivassero loro.
Fuori dalla fabbrica cacciavo uccelli, scoiattoli, gatti e altri animali domestici divenuti randagi, ma non cani.
Mai i cani.
Su questo le storie hanno ragione, mi basta sentirne l'odore per averne una fottuta, immotivata paura. Perciò giro alla larga dai cani. Chissà cosa direbbero quelli che avevano timore di me un tempo nel vedermi fuggire inseguito da un chihuahua.
La fabbrica abbandonata era diventata la mia casa, e mi piaceva. L'eco nelle ampie sale dell'officina mi risuonava liquido nelle orecchie, ed era come stare sott'acqua. Quando poi una parte del tetto e una sezione del pavimento crollarono, aprendo una voragine nelle fondamenta che si riempì in pochi giorni d'acqua piovana, ottenni anche la mia piscina personale in cui immergermi e nuotare. Il mio nuovo corpo anelava l'acqua, non avevo branchie ma i miei polmoni erano fatti per trattenere a lungo il fiato, ed ero certo che se avessi dovuto cacciare in quell'elemento, avrei fatto un lavoro di gran lunga migliore di quel che facevo sulla terraferma. In più, nella penombra delle profondità marine, le briciole di stelle che luccicavano sulle mie squame da coccodrillo avrebbero confuso anche il più accorto dei pesci.
Ma, se era fantastica per cacciare sott'acqua, la mia pelle costituiva un problema nelle notti in cui camminavo sopra la terra. Ancor più di prima, mi era impossibile non essere notato.
Per questo non uscivo quando faceva buio se non ero coperto di indumenti da capo a piedi, compresi guanti, un mantello, e una maschera scura che mi coprisse tutto il viso.
Non uno scintillio di bagliore lunare poteva essere visto provenire da me quando uscivo coperto a quel modo. E io sapevo muovermi in modo silenzioso nonostante la mia mole, e avvertivo subito l'odore di chiunque tentasse di avvicinarsi a me nel mio territorio. Perciò non c'era modo di sorprendermi, o così credevo.
Ancora oggi, non so come mi abbiano trovato.
Li scoprii quando erano già in casa mia, che si aggiravano guardinghi, in formazione e armati. Due di loro, almeno, quello grosso dalla pelle di pietra, che adesso chiamano troll, e quello che aveva tutto l'aspetto di essere un uomo, un uomo vero come ce n'era una volta e non un'assurda variante umana con orecchie a punta o ali o chissà cos'altro, erano armati. Per terza veniva una donna, lunghi capelli neri stretti in una treccia, tratti del volto e abbigliamento che denunciavano l'appartenenza a una qualche tribù di nativi americani, e odore di pesce. Delizioso, succulento pesce.
I tre procedevano nella loro esplorazione della fabbrica come dei soldati, o dei poliziotti. Li sentii bisbigliare dell'aberrazione che erano venuti a prendere, e capii che si riferivano a me.
Non ero rimasto tanto isolato da non sapere che cosa stava succedendo nel mondo. Da non essere a conoscenza delle squadre speciali che davano la caccia e uccidevano le Aberrazioni, quelli come me, ritenute più pericolose. E chi decideva cos'era pericoloso e cosa no erano gli elfi, che si erano impadroniti del potere nel vuoto lasciato dal vecchio governo i cui membri erano morti, o trasformati, o... qualcuno di loro era diventato uno di quei diavoli dalla pelle candida, le orecchie a punta e l'eterna giovinezza senza dover ricorrere al chirurgo. Qualche anno fa c'era stata la fine del mondo, eppure certe cose non cambiavano mai.
Eravamo solo passati da un'élite bianca all'altra.
E quei tre erano i loro cani da guardia.
Perciò feci come facevo sempre con i cani, mi nascosi, e li costrinsi a giocare a rimpiattino da una sala all'altra, da un nascondiglio all'altro, mandandoli a inseguire gli echi di un luogo che io conoscevo troppo bene. Scricchiolii di lamiere percosse dal vento, gocciolii d'acqua piovana, ululati malinconici dell'aria nelle condutture erano i miei compagni, ma per loro, potevano essere i passi o il lamento di colui che stavano cercando.
Riuscii a eluderli, a sfuggirgli fino ad arrivare alla sezione allagata della fabbrica, lì dove potevo tuffarmi e restare al sicuro per ore, irraggiungibile. Ma mi immersi troppo tardi, e loro mi videro, e anche se lì sotto ero al sicuro, capii di essere in trappola. Potevo resistere a lungo, ma prima o poi avrei dovuto riemergere per respirare.
Sul fondo della pozza, mi liberai del mantello, dei guanti, delle scarpe e della maschera, inzuppati e pesanti. Ormai non serviva più celare il bagliore che scintillava come stelle e luna sulla mia pelle squamosa nel buio, e volevo essere il più possibile libero di muovermi nel mio elemento, se a uno di loro fosse venuta la sciagurata idea di affrontarmi dove avevo il vantaggio, invece di attendere. Con l'acqua che attutiva piacevolmente ogni suono alle mie orecchie, sentii ovattato quello che doveva essere il vocione del troll urlare: – Isaac Adams! Isaac Adams, vieni fuori, vogliamo solo parlare!
Non gli credetti. Dicevano sempre così, loro, prima di spararti.
Ci fu una discussione tra loro, non compresi le parole mentre le voci si sormontarono, poi si levò quella della donna, che da sott'acqua però mi parve un sussurro suadente.
– Stan, Brian, state qui. Vado io.
– Ursula, fa attenzione – si raccomandò il terzo, e poi avvenne qualcosa che non mi aspettavo, e che non dimenticherò mai. In alto, sopra la superficie dell'acqua, danzava un bagliore simile al mio, eppure diverso. Mi passò per la mente che la donna fosse come me, ma non era così, avevo visto il suo volto e le sue mani, solo pelle, niente squame coriacee da rettile, e quel bagliore che si muoveva lassù sembrava muoversi da solo, sembrava vivo. Poi la donna si tuffò e in un attimo fu accanto a me, ed era quasi umana, ma aveva branchie sul collo e squame azzurre su parte delle braccia e delle gambe, e allora capii perché aveva odore di pesce, e la guardai con ammirazione, senza nemmeno pensare a fuggire o a combatterla. Lei mi strinse per un braccio, così forte la sua stretta, poi nuotò verso la superficie tirandosi me dietro, io che a quel punto lottavo per fuggirle, per trascinarla a fondo, tutto inutile, lei senza sforzo mi tirò sul pavimento della fabbrica, poi mi trattenne a terra con una sola mano.
– Come hai fatto – mi lamentai, – sei così forte, che razza di creatura sei?
– Sono un'acquatica – rispose la donna. – O almeno così mi definiscono, anche se io avrei altri nomi, ma ormai sembra sia ufficiale questo. Però di solito non ho tutta questa forza, ho pregato gli spiriti per fortificare il mio corpo. Sono una sciamana. La mia gente si preparava da tempo al cosiddetto Giorno delle Urla, e ha tramandato le storie e le preghiere antiche, perciò pochi di noi sono morti quel giorno.
I suoi compagni ridacchiarono, poi quello che pareva umano si schiarì la voce e la interruppe: – È questione di genetica, Ursula, non c'entra niente conoscere le favole oppure no.
Le sue parole dovevano averla irritata perché la donna, Ursula, aumentò la pressione della mano sulla mia schiena schiacciandomi a terra, e ignorando le mie proteste replicò: – Vuoi forse negare il potere degli spiriti? Eppure lo hai visto così tante volte, ormai...
– Ho visto altre aberrazioni fare qualcosa di simile, e non erano sciamani, e nemmeno pellerossa – fu la risposta pacata dell'uomo, di fronte alla voce di Ursula che si scaldava sempre più. – Un giorno riusciremo a spiegare anche questo. Nel frattempo, che ne dici di lasciarlo?
La donna mugugnò e sollevò la mano. Alzai la testa e mi guardai attorno. I due uomini avevano messo via le pistole e sorridevano, o meglio, quello umano era un sorriso, quello del troll era più un ghigno inquietante. Non sembravano intenzionati a spararmi, né a scuoiarmi a tradimento come nelle favole.
– Sono Brian Eddings – mi disse quello che aveva battibeccato con Ursula. – E il mio amico, qui, si chiama Stan Brooks.
Ignorai il troll che mi aveva presentato e mi concentrai su di lui. Più lo guardavo e meno riuscivo a trovare qualcosa di fuori posto, eppure doveva esserci qualcosa, proprio come l'indiana che si stava rivestendo e i cui abiti, ora lo vedevo, sembravano cuciti apposta per celare le squame e le branchie.
L'uomo però sembrava nasconderlo ancora meglio, nemmeno il suo odore lo tradiva, perciò mi arresi e gli chiesi: – Tu sei... umano? Come quelli di prima?
L'uomo, Brian, si morse un angolo del labbro, roteò gli occhi, poi disse: – Invariato. Sì, praticamente sì. Uno dei pochi. Che fortuna, vero? – concluse in tono di scherno.
– Almeno non sei morto – replicò Ursula.
Brian sospirò e concluse le presentazioni, indicandola: – E lei è Ursula – cosa che avevo già compreso, per poi proseguire – Non parliamo del cognome o comincerà a farti una lezione di storia e tradizioni della tribù. Ed è un'aberrazione e un'acquatica, e tu sei...
– Nanabolele – bisbigliai. Era la prima volta che lo pronunciavo ad alta voce, il nome della terribile creatura mangiauomini delle favole di mia nonna di cui sembravo incarnare tutte le caratteristiche.
– Cosa? – fece Brian, poi scosse la testa. – Stavo per dire un'aberrazione come la nostra Ursula, diverso, ma sempre un tipo di variante umana rara, a differenza di quelli come Stan che ha un'esercito di suoi simili. Ma pensavo ti chiamassi Isaac Adams, questo era il nome nelle carte del vecchio ospedale...
– Siete poliziotti? – chiesi, mentre mi alzavo in piedi per poter avere dalla mia almeno la mia altezza intimidatoria, anche se il troll mi superava di un po' e la donna seguiva con attenzione ogni mia mossa, pronta a riagguantarmi con la sua super forza innaturale.
Il troll e l'umano si scambiarono uno sguardo, poi Brian rispose: – Io e Stan lo eravamo. Ma le cose sono cambiate negli ultimi anni, e adesso stiamo con Ursula e i suoi. L'aiutiamo a trovare le aberrazioni e a portarle al sicuro, e magari a insegnargli a fare... quello che possono fare.
– Non ti costringeremo – aggiunse Ursula, e detto da lei che mi aveva trascinato fuori dall'acqua a forza sembrava piuttosto comico. – Ma se ti va di venire... le porte della riserva sono aperte.
Dissi loro che avevo bisogno di un istante per riflettere. Il trio male assortito si fece da parte e mi diede spazio e tempo.
Avevo vissuto per anni nella fabbrica abbandonata. Da solo. Quella era la mia casa, e ne conoscevo ogni anfratto, ogni sussurrante, liquida eco. Era il mio territorio. Lì ero a mio agio, era come stare sott'acqua, proprio come avevo vissuto per tutta la vita, prima ancora di diventare quello che ero. Chiuso, isolato, silenzioso. Invisibile, le rare volte in cui mi riusciva di non essere notato. Invisibile, in fondo, a chi stava sopra l'acqua, perché d'altra parte, ero solo una delle tante balene in un vasto oceano.
Ma stavo trattenendo il fiato da troppo tempo, a vivere così. Era giunto il momento di riemergere e respirare.
– Aspettate. Vengo con voi – dissi al trio, che si stava volgendo verso le porte che conducevano all'uscita della fabbrica, perché l'alba stava sorgendo, e il suo chiarore che penetrava dal tetto sfondato già smorzava in un'anonima oscurità i bagliori sulla mia pelle.

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