lunedì 2 ottobre 2023

Paura della paura


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Foto di Tobias Bjørkli da Pexels


Dicono che non ci sia niente di cui aver paura, se non della paura stessa. Non so chi l'abbia detto in origine, ma questo è ciò che mi ripeteva la gente, quando veniva a sapere della maledizione che affliggeva la mia famiglia. "Sono solo coincidenze, i mostri non esistono, vedrai che andrà tutto bene".
Quanto si sbagliavano.
Mio padre, mia zia, mio nonno, i suoi fratelli, i loro figli, il bisnonno e varie altre generazioni di ascendenti erano tutti morti all'età di trent'anni, in circostanze diverse, ma tutti alla stessa età, e questa non era una coincidenza. Quanto al mostro, iniziai ad avvertirne la presenza attorno alla vecchia dimora di famiglia già qualche mese prima del mio compleanno. Lugubri latrati che spezzavano improvvisi la tranquillità della notte, e la sensazione di una creatura malevola che si aggirasse inquieta nella brughiera in cerca della sua preda, e tre paia di occhi rossi il cui baluginio appariva solo per qualche istante, in lontananza, funesto annuncio di quel che avrei dovuto affrontare di lì a poco.
Ero consapevole che non sarebbe andato tutto bene per me, e ormai non avere paura non era più un'opzione. Le mie notti si popolarono di incubi, quando non erano insonni.
Ne parlai con Jane, l'unica di cui potessi fidarmi, più per sfogarmi che nella speranza di ricevere un consiglio sensato. Inaspettatamente, Jane mi credette.
– Se c'è un modo di tirarti fuori da questo guaio, io lo troverò – mi disse, ragazza caparbia. Lei fece ricerche, interrogò estranei, elaborò piani quando io riuscivo solo a barricarmi in casa. E alla fine mi convinse che una soluzione c'era, e mi trascinò dall'altra parte del mondo, io che non ero nemmeno stato nel sud del continente, nella terra di origine di quella "sposa greca" che si diceva avesse portato la maledizione nel nostro sangue irlandese. Prima di quella donna che si gettò dalla scogliera pur di sfuggire alla bestia, anche se la versione ufficiale narra che fosse infelice per un matrimonio imposto e la lontananza dalla sua patria, i miei antenati avevano goduto di lunghe e soddisfacenti vite.
Jane era sicura che sarebbe stato così anche per me, se solo l'avessi seguita in quell'avventura nella giungla alla ricerca di un mito. A casa, l'idea mi parve sensata: era una creatura mitologica quella che mi perseguitava, dunque era solo logico che per liberarmene avrei dovuto far ricorso a un'altra creatura mitologica. Una dea, nientemeno, o un'entità che si era fatta passare per tale.
Ma più mi allontanavo da casa, e più quella ricerca assomigliava a un sogno impossibile. Se una leggenda era reale, non era detto che lo fossero tutte. Inoltre, avevo segretamente sperato di distanziare la bestia, di farle perdere le mie tracce, almeno temporaneamente, e invece non smisi di avvertire i latrati nella notte, tra gli urli delle scimmie e inquietanti versi selvaggi di chissà quante altre belve, seppur meno temibili di quella che conoscevo bene, nascoste nell'ombra; non cessai di sentirmi pedinato con implacabile ferocia da quell'essere infernale.
Non so dire quanti crolli nervosi la mia amica sventò con la sua forza d'animo e la testardaggine. Fossi stato più forte, mi sarei posto io alla guida di quella spedizione, ma ero provato da tutta una vita passata in attesa di quel fatale trentesimo compleanno. Ma ero esausto, accaldato, perso in quel mondo che non mi apparteneva di verdi muri di liane, umidità gocciolante che persisteva per giorni dopo i frequenti acquazzoni, il primo dei quali ci sorprese appena sbarcati dalle canoe, e dovemmo affrettarci sotto una pioggia violenta e improvvisa a mettere al riparo le nostre imbarcazioni e l'attrezzatura che avevamo con noi. Perso in un mondo di orizzonti ristretti, io che ero abituato a sorvegliare la brughiera dalla finestra più alta della mia dimora in cerca di segni della bestia, lì invece avrebbe potuto arrivarmi quasi addosso senza che io la vedessi, quando ormai sarebbe stato troppo tardi per trovare riparo. In quel mondo sconosciuto non avevo idea di quale suono fosse fuori dall'ordinario nel complesso tappeto ordito di ringhi, schiamazzi, schiocchi, ruggiti, fischi, ronzii, ululati, perciò temevo tutto, trasalivo a ogni rumore appena un po' più forte e improvviso degli altri. E sotto i diluvi che ci costringevano a sedere per ore al riparo in una piccola tenda, che riducevano la visibilità già scarsa a zero e appiattivano alle mie orecchie tutto ciò che non era scroscio d'acqua battente e scoppi improvvisi di tuoni, maledetti tuoni che mi facevano battere il cuore a mille, secondo Jane avrei dovuto approfittarne per riposare ma chi poteva riposare sapendo che cosa c'era in agguato là fuori?
E se non dormivo io, non dormiva nemmeno Jane, così stavamo seduti per ore a fissarci.
Colpa di quella notte attorno al fuoco in cui le avevo confessato la mia debolezza. Avevo ceduto alla paura e le avevo detto che avrei preferito farla finita piuttosto che lottare inutilmente contro l'inevitabile, e così Jane si era prodigata a combattere la mia resa, a inculcarmi un po' del suo spirito combattivo, ma da allora di me non si fidava, e preferiva non lasciarmi solo a combattere i miei demoni.
La sua fortuna, la mia, non lo so se posso definirla tale data la fine che mi attendeva altrimenti, fu che non avevamo una pistola. Un proiettile sarebbe stata una conclusione allettante.
Ma avevamo solo una coppia di machete per aprirci la strada nella fitta boscaglia, e io avevo troppa paura di usarli in un altro modo, così come ce l'avevo per andare a stuzzicare un serpente velenoso.
Ne avevo visti molti, di serpenti, ma nessuno che sembrasse intenzionato a fare a tradimento quello che io non avevo il coraggio di fare.
Forse sapevano per istinto che un altro predatore era già sulle mie tracce.
Non sapevo che cosa mi attendeva alla fine della strada, ma i giorni che mi separavano dal mio compleanno erano sempre di meno, e tutto, in quella giungla, pareva volerci ostacolare affinché non giungessimo in tempo.
A cominciare dai nativi, che in ogni villaggio più o meno civile in cui eravamo stati, fino all'ultimo in cui cui Jane era riuscita a contrattare per un paio di canoe, alla prima menzione della nostra meta si erano categoricamente rifiutati di farci da guida nella giungla o accompagnarci. Per proseguire con le piogge intense e frequenti che ci costringevano a interrompere la marcia, e al fango che si lasciavano dietro che ci rallentava, ai guasti vari che affliggevano la parte più delicata della nostra attrezzatura, e alle liane e al sottobosco che ostruivano il passaggio, sempre più fitti, guarda caso, nella direzione in cui dovevamo andare.
Nessuna meraviglia che in cuor mio mi fossi già arreso. Quando arrivammo nel cuore silenzioso della giungla, era solo Jane che mi trascinava avanti, che mi impediva ostinatamente di abbandonarmi al mio destino. Le sue ricerche ci avevano condotto in un luogo nascosto dove persino gli animali si rifiutavano di andare, persino la pioggia non osava cadere. Un luogo cupo e spaventoso quasi quanto la bestia che ancora, persino lì, mi inseguiva. Qualcosa di ostile nel fitto della giungla cercava di tenerci lontani con gragnole di sassi dalle rupi che svettavano tra gli alberi, e un'aria irrespirabile e densa, e urla e sussurri che parevano provenire dalle stesse piante. Difficile immaginare che fosse un animale qualunque a emettere quei versi inquietanti, non si muoveva nulla che non fosse una foglia. Solo io, Jane, e la bestia il cui fiato mefitico ormai avvertivo alle mie spalle, pur senza riuscire a vederla.
E infine trovammo quel che cercavamo. Il tempio, e lei.
Pareva una statua, e io per un istante dubitai. Come poteva essere viva dopo tutto questo tempo?
Ma Jane non si arrese. Non poteva credere di avere fatto tutta quella strada per niente, sospettai, dopotutto l'idea era stata sua. Così parlò e parlò e parlò alla dea immobile tra le pareti del tempio in rovina, alberi per colonne e per tetto un baldacchino di lussureggianti fronde. Le raccontò di me e della mia maledizione, una lunga preghiera a una dea sorda.
Quando a dispetto delle apparenze la forma che pareva scolpita nel legno si animò di vita, non ebbe altra risposta per noi se non che voleva essere lasciata in pace, nella solitudine che lei stessa si era creata, e che non avrebbe mosso un dito in mio aiuto contro la bestia.
Anzi, fece qualcosa di più che non fare nulla: la cosiddetta dea ci tradì, bloccando sul posto i nostri piedi e lasciandoci inermi alla mercé della bestia.
Non avevo più contato i giorni, persi nella semioscurità verde della giungla più fitta, senza più un orologio funzionante e nessun punto di riferimento per distinguere il giorno dalla notte. Ma quando vidi per la prima volta, distintamente e da vicino, l'enorme cane a tre teste dagli occhi di brace e le fauci che vomitavano fiamme di cui si raccontava nelle storie di famiglia, seppi che era arrivato il giorno.
Sarei fuggito senza ritegno se avessi potuto, o caduto in ginocchio a supplicarlo di fare presto, o chissà che altro, e invece non potevo far nulla di diverso dal fissarlo.
Il Cerbero rimase sulla soglia del tempio a fissarmi a sua volta. Tre paia di occhi rossi, spaventosi, e la sua mole enorme che occupava tutto il varco verso l'esterno. Un ringhio che puzzava di zolfo scaturì da tutti e tre i musi.
Jane, sciocca Jane, la mia testarda amica che aveva creduto di potermi salvare, non trovò altro di meglio da fare che insultare la creatura, attirando così la sua attenzione.
Il Cerbero si mosse, ma non per attaccare me.
Non so dove trovai il coraggio in quel momento. So solo che non gli avrei mai permesso di farle del male. A costo di immolare me stesso tra atroci tormenti.
Tanto, la mia morte era già prevista, ma quella di Jane, no... o almeno, non per quel giorno.
– Ferma, bestia immonda! – urlai, ritrovando la voce, e che voce! Non avevo mai, in tutta la mia vita, comandato qualcuno con un tono così imperioso.
Proprio come avevo fortemente desiderato di vedergli fare, il Cerbero mi obbedì, si fermò, e chinò tutte e tre le teste. Proseguii: – Tu vuoi me. Lasciala stare e attacca me, se proprio devi.
La bestia non se lo fece ripetere due volte, raspò a terra con la zampa possente e poi caricò. Chiusi gli occhi, non volevo guardare, il cuore mi batteva a mille e pensai che mi sarebbe scoppiato nel petto, sudavo e tremavo ma tutto sarebbe finito presto, mio dio, almeno sarebbe finito.
Pensavo di non volere altro.
Forse solo sentire la voce di Jane un'ultima volta. Guardarla un'ultima volta.
Mi girai e sbirciai appena con un'occhio, e sul suo volto vidi lo stupore, subito sostituito da un cipiglio pensoso. Infine, Jane accennò a qualcosa sopra la mia testa, e bisbigliò: – Credo che stia aspettando che tu faccia un infarto.
Alzai gli occhi e vidi le tre teste orribili che mi sovrastavano, con le fauci aperte ma immobili. Urlai.
– Sta' indietro, vattene, non mi man...
Non feci in tempo a finire la frase che Jane lanciò un fischio stridente, poi sbottò: – Ehi, no, guardami, non ci pensare nemmeno!
Perché, se alle mie prime parole il Cerbero si era ritratto da me come gli ordinavo, al pensiero che avrebbe potuto anche divorarmi vicino com'era, il Cerbero si era mosso in avanti come per azzannare.
E allora capii quello che Jane aveva già compreso, e che la dea alle nostre spalle aveva tentato di dirci nel suo modo oscuro.
"I pensieri sono vivi".
Io avevo creato quel mostro. Reale o no, il Cerbero mi obbediva, facendo ciò che mi aspettavo facesse.
Credevo di essere perseguitato dalla bestia, e così la bestia mi aveva perseguitato.
Credevo che sarei morto, e così avevo cercato la mia fine.
Sapevo, finalmente, che cosa aveva ucciso davvero mio padre, mia zia e tutti gli altri. E non gli avrei permesso di uccidere me.
– Vattene. Non tornare mai più.
E mentre glielo ordinavo, prima ancora di vedere il cerbero voltarsi, trottare via e sparire oltre la soglia del tempio, già sapevo che non l'avrei più rivisto. Perché io volevo così.
Dovevo solo insegnare ai miei cugini più giovani, e poi ai miei figli e nipoti, la verità sulla maledizione di famiglia.
Dietro di me la dea rise, quindi ci liberò dall'immobilità che mi aveva costretto ad affrontare il mio fato, in un modo o nell'altro. Ci rivelò che non sapeva affatto come sarebbe andata, ma che alla fine, da morti o da vivi, l'avremmo lasciata in pace, a pensare la sua solitudine, come lei desiderava.
Ce ne andammo: era chiaro che nel suo tempio dimenticato da tutti non eravamo i benvenuti.
Non ho mai detto a nessuno dove trovare la dea della giungla: questo è un segreto che Jane e io ci porteremo nella tomba, dopo una vita lunga e soddisfacente.
E non ho mai detto a tutti quelli che cercavano di consolarmi con una citazione quando avevo tanta paura di una leggenda... che, in fondo, avevano ragione.

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