giovedì 13 giugno 2019

Personaggio: Zia Alice

Per il secondo Guardiano della soglia ho cercato un personaggio che fosse agli antipodi rispetto al primo. Un amico, invece di un nemico. Una donna, invece di un uomo. Una persona normale, invece di una creatura bizzarra che parla in modo strano. Beh, due su tre non è male, no?
Quindi, sono lieta di presentarti:

Immagine creata con Holiday Avatar Creator di Rinmaru Games


Zia Alice (da non confondere con Alice Della Corte, che appartiene a un'altra storia... in questo caso il nome si legge all'inglese, essendo lei britannica) è una delle dieci bellissime donne rapite dagli angeli caduti e portate a vivere assieme a loro sulla collina chiamata Tana del Diavolo. Come tutte le altre, Alice ha appreso dal suo Caduto i segreti di un'arte che potremmo definire "magia". A differenza delle altre, Alice ha deciso di incarnare fino in fondo lo stereotipo della strega, motivo per cui si veste spesso di nero, si circonda di gatti e tende a dare l'impressione di essere saggia e misteriosa.
Zia Alice si rivela un aiuto fondamentale, all'inizio della storia, per una decisione che il protagonista dovrà prendere: ovvero un viaggio da una realtà per lui ordinaria, a una straordinaria che noi definiremmo invece normale. Per questo motivo può essere considerata un Guardiano della soglia, uno di quelli che spronano a scoprire ciò che si desidera davvero e che mettono alla prova per insegnare che si possiedono già le capacità necessarie a raggiungere la meta. E il mezzo con cui ottiene questo scopo sono le parole.


Questi i brani già scritti in cui compare o viene nominata zia Alice:
Sincerità brutale
Il modo strano di parlare di zia Alice


L'esercizio richiede di scrivere un brano che riguarda il primo incontro con il guardiano della soglia oppure l'esito della prova. Stavolta ho scelto il secondo caso, tanto per cambiare. Questo racconto si colloca nel mezzo tra i due già scritti.


"Sei libero come i gatti." Era il modo di zia Alice di dirmi che potevo scegliere di restare, contrariamente a quello che tutti volevano che facessi, oppure anche lei stava cercando di mandarmi via?
Io non volevo andarmene. Il mio desiderio di partire e vedere quel mondo di cui avevo sempre soltanto letto era morto anni fa, quando mia madre mi aveva negato quella vacanza. Il prezzo per andare altrove era restare lo stesso per tutta la durata del viaggio, e io non ci ero riuscito nemmeno per una sola giornata. Mi ero rassegnato, anzi, col tempo, avevo gioito di non esserne stato in grado.
Mescolarmi alla gente fuori da Tana del Diavolo non faceva per me. Lo credevo ancora di più, da quando mia madre mi aveva rivelato quella sconvolgente verità. L'identità di mio padre.
Io non c'entravo niente con tutti loro.
– Il mio micino è confuso, mh? Molto confuso – mormorò Alice, accarezzando e cullando il gatto nero tra le sue braccia. La bestiola allungò la zampa verso un ciuffo biondo che ricadeva dalle spalle della donna, ma io sapevo che Alice non stava parlando al gatto. Non parlava mai al gatto, quando non era da sola con il gatto.
– Non sono confuso – sbottai, alzandomi dal letto su cui era posata la valigia, aperta in mezzo al suo contenuto sparso in giro. Mi guardai nello specchio a figura intera della mia camera: avevo ancora i capelli e gli occhi scuri dalla mia recente furia, e i tratti del volto induriti dal risentimento. Tutte le donne di Tana del Diavolo sapevano come si manifestavano le mie emozioni. Zia Alice non poteva credere davvero che fosse la confusione a dettare i miei gesti.
Alice sorrise in modo enigmatico. – Ah, ma non sempre i gatti mostrano quello che pensano, non è vero, piccolo mio? A volte, tengono immobile la coda prima di un balzo, o sfoderano le unghie anche quando non intendono fare del male.
Zia Alice mi sbirciò, prima di riprendere con le moine al felino. Scossi la testa. Avevo deciso che non le avrei lasciato piantare i semi del dubbio dentro di me, né le avrei permesso di farmi sentire in colpa. Non ero io quello che aveva tenuto nascosto una verità che apparteneva ad altri.
– Non ho tempo per gli indovinelli, zia. Ho da fare – replicai in tono brusco, avvicinandomi a lei a grandi passi per cacciarla dalla stanza. Ma Alice non si mosse, non mi assecondò. Si limitò ad alzare lo sguardo, e a fissarmi con un'occhiata gelida e invadente, in silenzio. Avrei dovuto capire che non sarebbe stato così semplice.
– Dimmi, Ethan: da quanto il mio bel gatto è dello stesso colore? – mormorò zia Alice, nell'interpellare me direttamente, per la prima volta da quand'era entrata nella mia camera.
– Ti ho detto... che... – Sentii il mio respiro farsi pesante. – ...non ho... tempo... – Non volevo spingerla come avevo fatto con mia madre, perciò slanciai il braccio destro di lato. Alle mie spalle, un tonfo mi fece capire che la valigia era caduta dal letto, rovesciando a terra il resto del suo contenuto. – ...per gli indovinelli!
Alice non si scompose, anzi. Sottrasse una mano alle carezze al gatto e mi sfiorò i capelli. – Da quanto tempo il mio micino è nero di rabbia?
Stavo per liberare un'altra scarica di furia, quando le parole di Alice colpirono nel segno. Avevo ceduto al furore nel pomeriggio, di questo ero certo. Subito dopo il litigio con mia madre, me n'ero andato per evitare di fare del male a qualcun altro, e avevo girato per i boschi di Tana del Diavolo, distruggendo di tanto in tanto un masso o un tronco che mi capitava a tiro. Ero stato via tutta la notte, e nonostante non avessi avuto uno specchio a mia disposizione, sapevo che quello che provavo non era mai cambiato. Mi ero crogiolato nella rabbia. Me n'ero rivestito, letteralmente.
Ero tornato la sera successiva. Ancora arrabbiato. Ancora lo stesso me cupo e spaventoso che vedevo allo specchio. Ero rimasto identico a com'ero per più di una giornata.
La sorpresa di quella scoperta mi schiarì un poco i capelli, ma fui lesto a riafferrare quell'astio sfuggente, e a riportare i miei tratti a quelli di un istante prima. Alice aveva ragione. Potevo controllarlo, e mostrare al mondo sempre lo stesso volto. Ma non serviva a molto se quel volto era il volto della rabbia.
– E tu vorresti che andassi in giro così, perennemente infuriato?
Zia Alice abbassò lo sguardo a un miagolio del gatto e gli fece i grattini dietro la testa. – E perché no, gattino mio? Saresti un perfetto adolescente, se fossi umano.
Sbuffai. Io, però, ero anche carico di potere, e pericoloso, quand'ero in quello stato. Non glielo dissi: Alice ne era consapevole.
– Ma un gatto che impara a graffiare sempre, può anche imparare a non graffiare mai.
Quando zia Alice lo disse, mi girai vesto lo specchio, e repressi la mia collera, la placai, raffreddai il mio animo finché non rimase altro che un volto inespressivo, macchie di lentiggini sulla pelle chiara circondata da una massa rossiccia e spettinata.
Era così che dovevo essere? Non provare nulla, né gioia né tristezza, né rabbia né amore, se volevo camminare per il mondo senza essere considerato un mostro ingannatore come mio padre?
Sentii Zia Alice mormorare alle mie spalle. – Oh, bravo il mio micino. Ha capito, finalmente.
Distolsi gli occhi dallo specchio. Dovevo almeno provarci, se non altro, per evitare il ripetersi di ciò che avevo combinato il giorno prima.
– Dì a mia madre che farò come vuole – replicai, mentre rigiravo la valigia rovesciata e ripiegavo gli indumenti sparsi a terra. – Proverò ad allontanarmi, a vivere tra le persone normali. Ma se non mi piace, o se qualcosa va storto... tornerò a casa. Qui, al posto a cui appartengo. E né lei, né una di voi, potrà più impormi di lasciare la Tana del Diavolo.

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