lunedì 12 dicembre 2022

Pensieri malati


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Engin Akyurt da Pexels


In ascensore, sul fondo bianco sporco di una bacheca che non vedeva un annuncio da anni, una scritta in pennarello rosso diceva "Non si può guarire un cuore spezzato". Accanto alla scritta, circondata da svariati graffiti da vandalo molto meno poetici, che comprendevano saluti infantili e nomi corredati da numeri di telefono, era tracciata nello stesso inchiostro rosso la sagoma delle due metà di un cuore stilizzato, separate da un sottile spazio bianco a zig zag. Avevo aperto molte gabbie toraciche nel corso degli anni, ma spezzato o no, non avevo mai trovato un cuore umano che assomigliasse a quello.
Le porte dell'ascensore si aprirono e io inspirai a pieni polmoni l'odore di urina, sofferenza e formaldeide, prima di lasciare l'alcova di metallo per il corridoio lastricato di bianco e verde pallido. Passi frettolosi ed echi di porte che si chiudevano con un clangore sonoro mi circondarono, e io mi incamminai senza fretta in direzione del reparto dove lavorava Maria. Andare a prenderla direttamente sul posto di lavoro era diventata un'esperienza gradevole da quando avevo recuperato ogni memoria che mi apparteneva, da quando sapevo chi ero e di che cosa avevo bisogno.
Oltrepassando le stanze allineate lungo il corridoio davo sempre un'occhiata all'interno delle porte aperte e mi godevo ogni sguardo vuoto e rassegnato, ogni mugolio e ogni lamento. Era un piacere leggero, ben diverso da quello che mi concedevo nelle notti più cupe, quando facevo sparire uno o due tra gli esponenti della feccia cittadina e li lavoravo ben bene, apprezzando ogni sfumatura di terrore e dolore che riuscivo a procurare loro prima di scartare i loro gusci vuoti. Ero diventato bravo. Non li trovavano mai, quando avevo finito con loro.
Mi nascondevo agli esseri umani per necessità, ma alla fin fine, da quando non mi nascondevo più da me stesso, da quando avevo accettato la mia natura e avevo quindi una certa libertà di scelta su come soddisfare i miei istinti, avevo cominciato a sentirmi quasi un eroe. Ero certo che se l'umanità o perlomeno la cerchia degli onesti avesse saputo quello che facevo, lo avrebbe approvato. Magari non avrebbe approvato i miei metodi, ma il risultato, oh, quello sì. Il solo pensiero riuscì a farmi nascere un sorriso crudele sul volto.
Un vecchio coricato di fianco in un letto mi apostrofò in tono querulo: – Dottore, dottore!
Lo ignorai e proseguii. Portavo sempre un camice bianco quando andavo a trovare Maria in reparto, era parte della maschera creata per amalgamarmi nel luogo in cui mi trovavo, così come l'aspetto umano dell'innocuo Edgar Allen era la mia maschera nel mondo degli uomini. Se qualcuno mi avesse visto com'ero davvero, così come mi vedevano quelli che sceglievo per il mio divertimento, avrebbe subito gridato al mostro, oppure mi avrebbe definito un demone come aveva fatto il primo essere umano che aveva incrociato la mia strada, il primo che avevo ucciso. Allora non avevo alcun discernimento, né una maschera per passare inosservato. Ero pura violenza, così come pensavano dovesse essere qualcuno come me le femmine della mia specie. Le Succube, più evolute e sofisticate, che alla fine avevo costretto ad accettare che il mio esilio non si sarebbe tradotto in una condanna a morte.
Un paio di infermieri e una dottoressa mi oltrepassarono in direzione opposta. Non fecero domande, per loro ero semplicemente un medico che lavorava in un altro reparto, mi avevano già visto ronzare attorno a Maria e dunque non ero una presenza sconosciuta in reparto. Chiacchieravano indaffarati, sbirciando di tanto in tanto una cartellina. Rivolsi uno sguardo lascivo alla dottoressa, d'altra parte sono un Incubo e non è solo di violenza che mi nutro, ma lei era troppo impegnata e passò oltre senza notarlo.
Alla mia destra una vecchia che si trascinava dietro l'asta metallica che sosteneva una flebo prese a tossire senza sosta, una tosse secca, malefica, profonda, come se da un momento all'altro avesse dovuto sputare un polmone. Il suo sfogo mi infastidì e le augurai i peggiori mali, ma senza trarne soddisfazione. Ero consapevole che non avrei mai puntato a una preda così debole: se non faceva un minimo di resistenza, che gusto c'era?
Una porta si aprì cigolando di fronte a me e ne uscì Colette, un'infermiera, la migliore amica di Maria. Lei mi ricordava in ben altre vesti, da quando ero stato ricoverato in ospedale dopo un incidente, e da allora non ero più riuscito a ingannarla. Con lei la mia maschera era spezzata, aveva una crepa proprio come il cuore disegnato in ascensore, e Colette era riuscita a vedervi attraverso. Non abbastanza, però, da scoprire cos'ero.
– Ecco di nuovo qua lo psicopatico – brontolò Colette, puntandomi addosso uno sguardo imbronciato. – Ti avviso, se spezzi il cuore di Maria, io pianto un bisturi nel tuo!
Mi venne da ridere, perché lei non diceva sul serio. Al contrario di me, non avrebbe mai fatto una cosa del genere.
– Non c'è alcun pericolo, Colette, e vedi di stare un po' calma – la schernii, con una nuova risata che mi gorgogliava in gola. – Maria è una donna adulta, e inoltre, lei sa perfettamente in che guaio si è andata a cacciare.
Colette mi rivolse una smorfia, poi l'anziana con la tosse attirò la sua attenzione e Colette si affrettò a raggiungerla e a riaccompagnarla con fare premuroso alla sua stanza, mormorandole rassicurazioni con la stessa vocetta che avrebbe usato con un bambino. Ah, gli esseri umani!
Fragili bambole di pezza in attesa della loro fine. La pietà per la loro condizione non mi apparteneva, e faticavo a spiegarmi perfino quella blanda affezione che mi aveva condotto a lottare per proseguire il mio esilio, piuttosto che cercare di conquistare il trono che era stato di mia madre, sovvertendo ogni regola del mio mondo. Avrei potuto farlo. Ero diventato più forte di qualunque altro Incubo fosse vissuto fino ad allora, considerando che nessun altro aveva superato l'adolescenza, e abbastanza determinato da tener testa con le unghie e con i denti alle giovani Succube che aspiravano allo stesso posto. Mi avrebbero ucciso, se non lo fossi stato, e poi avrebbero ucciso Maria per aver visto la mia vera natura e la loro. Ma io mi ero guadagnato il diritto di scegliere, e inspiegabilmente, avevo scelto di proteggere lei.
Non le avrebbero fatto del male finché c'ero io a garantire il suo silenzio.
Entrai nello spogliatoio delle infermiere e il clangore della porta che si chiudeva dietro di me la fece sobbalzare. Maria si voltò.
– Mi hai spaventato – disse, subito rassicurata al vedere me tra gli armadietti.
– Bene. Non chiederò scusa – le feci sapere. Con lei non avevo bisogno di fingere.
Maria si calò addosso il maglioncino azzurro. Aveva già messo da parte il camice, e non le restava altro da fare che pettinarsi. Mentre si spazzolava i capelli, sbirciò il mio riflesso nello specchio dell'armadietto.
– Non hai altri impegni stasera, vero? – mi chiese Maria, in tono lieve e distratto. – Nessun... pensiero malato a distrarti dalla nostra serata?
Lei aveva guardato negli occhi il mostro. Maria mi aveva visto davvero, nere ali telate, artigli e un sadico volto inespressivo, e chissà come mi aveva accettato.
– No. Sono a posto – le feci sapere, e quando Maria si voltò a sorridermi, capii che lo ero davvero.
Ripulito dalle medicine che lo avevano alterato per troppo tempo, quando pensavo di dover trattenere il mostro sanguinario che a volte prendeva il sopravvento sulla mia mente lasciandola costellata di vuoti e di spiacevoli amnesie, il mio sangue era tornato a essere rosso come quello di un essere umano. Mi chiesi, non per la prima volta, se dentro la mia gabbia toracica battesse un cuore, e se la sua forma fosse simile a quella di un cuore umano, e se un giorno, quando Maria avesse smesso di chiudere un occhio sulla mia indole inumana, oppure alla sua morte naturale, il mio cuore, se c'era, avrebbe potuto spezzarsi come una sagoma disegnata sulla bacheca di un ascensore.

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