lunedì 26 dicembre 2022

Intona un canto morbido


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Laura James da Pexels


Quando le note cominciarono a fluire sotto le mie dita, così lente, così malinconiche, ma allo stesso tempo inspiegabilmente gioiose, io chiusi gli occhi e lasciai che le mie mani continuassero da sole lungo la via che conoscevano tanto bene che era come percorrere la strada che porta verso casa. Sollevai le mani nel bel mezzo di un fraseggio e fu il silenzio, rotto solo dal mio respiro e dal lieve crepitio delle fiamme che lambivano i ceppi nel caminetto.
Due suoni così flebili, così morbidi, così inutili che spesso la gente, e io per primo una volta, non ci fa caso. Solo nel momento in cui mi resi conto che li sentivo di nuovo, io riuscivo a sentirli, Dio ti ringrazio, solo allora capii quanto mi erano mancati.
Posai di nuovo le mani sui tasti del pianoforte e ricominciai dall'inizio, una melodia diversa, un altro dei canti di Natale che avevo imparato a suonare da bambino, la musica che mio padre mi aveva insegnato quando le sue dita cominciavano a perdere la scioltezza per la malattia e gli serviva qualcuno che prendesse il suo posto nelle serate di fine dicembre, per accompagnare le voci della famiglia nei consueti cori natalizi. Le mie, di dita, non avevano mai perso l'agilità e la memoria tattile, nemmeno quando non riuscivo più a udire le note che producevano ed ero costretto a immaginarle. Nello sforzo di cercarle nella mia testa, avevo composto più melodie originali in quel periodo che negli anni precedenti, quando la musica per me era qualcosa di scontato e credevo che ci sarebbe stata sempre, che avrei avuto tutto il tempo del mondo, forse del mondo no ma della mia vita almeno, per frequentarla. Così l'avevo trascurata, preso da mille impegni: un passatempo come un altro, un argomento di conversazione con amici e colleghi ma senza soffermarmici più di tanto, un'abilità da tirare fuori dalla naftalina quando, a Natale, tornavo a casa e mi riunivo al resto della famiglia e mia madre cercava di farci cantare ancora tutti assieme, come un tempo, "in onore di papà", e le lacrime cominciavano a scorrerle sulle guance al primo ritornello.
Sollevai le dita dai tasti e sospirai. Lui, almeno, non aveva dovuto assistere alla mia disperazione dopo l'incidente, alla rabbia e alla frustrazione con cui avevo combattuto all'inizio, quando mi ero ripreso a sufficienza da capire quello che mancava, quello che mi era stato tolto così bruscamente come un filo spezzato, e che i medici mi avevano spiegato, con la pazienza e linee di pennarello su una lavagnetta, che non avrei riavuto mai più.
Non con quello che potevo permettermi di spendere, almeno. Questo non me lo dissero, ma adesso è evidente. Altrimenti in che altro modo, se non parlando di un miracolo, avrei potuto spiegarmi il suono di un sospiro, del crepitio delle fiamme che divoravano il legno, di una nota quando le mie mani ripresero il loro posto a comporre nella loro danza elegante il flusso morbido, tenue di una melodia quasi mormorata dai miei polpastrelli, e in questo caso non era un canto di Natale, non era Deck the halls, non era Astro del ciel né O Tannenbaum e neppure Noel, no, era la sua melodia, quella che avevo regalato a Karin affinché la cantasse, era la nostra canzone. Era la prima volta che la sentivo, che la sentivo davvero, non nella mia mente, immaginata, estrapolata dal ricordo di singole note che avevo costretto a stare assieme in una memoria che non era mai davvero esistita, la sentivo con le mie orecchie, nel presente, la sentivo come lei l'aveva sentita, ed era merito suo se potevo sentirla, lo sapevo anche se nessuno mi aveva detto niente, lo sapevo fin da quando avevo ricevuto quel messaggio da una clinica privata, avanzatissima nel settore delle lesioni del nervo acustico. Avevo una visita prenotata presso di loro e, in caso fossi risultato un candidato idoneo, un intervento da fissare.
Quello era stato il suo regalo d'addio.
Mi sentii oscillare mentre le mie braccia accompagnavano i movimenti rapidi delle mani, non avevo più riaperto gli occhi, non mi serviva vedere, per troppo tempo i miei occhi avevano sostituito le orecchie e in quel momento pensai che fosse giusto lasciarli riposare, ma loro la pensavano diversamente. Sentii un rivolo umido bagnarmi le guance mentre pensavo a quanto desiderassi udire la sua voce, non l'avevo mai udita e non la volevo sentire da una registrazione, io volevo parlare con lei, ringraziarla, ma Karin era inavvicinabile.
Troppo importante, una risorsa, nemmeno più una persona.
Faticavo a crederci, ma l'avevo vista nelle foto sui giornali, quando Virginia Blake l'aveva presentata al mondo per quello che era, un ritrovato della scienza, una creazione della mente umana, la prima vera intelligenza artificiale degna di questo nome, più di una somma di programmi e di un corpo di plastica.
Talmente perfetta da venire scambiata per un essere umano. Oh, che gran pubblicità si era fatta Virginia Blake finanziando quel progetto, una pubblicità che il mondo non avrebbe mai scordato, aveva legato per sempre il suo nome e quello della sua azienda a una rivoluzione che sarebbe entrata a far parte dei libri di storia.
Ma i libri di storia non avrebbero mai spiegato come poteva la pelle di Karin essere così morbida, e così spontanea la risata che io non avevo mai udito, solo visto, e così timidi i suoi occhi mentre mi parlava di ciò che aveva perduto, il suo passato, ciò che pensava di avere perduto ma che in realtà non aveva mai avuto.
Nella foto sui giornali accanto a Virginia Blake Karin sembrava così rigida, immobile, l'espressione incolore e vacua. Anche la sua pelle sembrava aver perso ogni traccia di morbidezza, il suo sguardo era privo di vita, era diventata... un robot, nient'altro che un robot.
Non sapevo che cosa le avessero fatto ma mi era bastata quella foto per capire che la ragazza che avevo conosciuto non c'era più, era stata sostituita da una cosa morta e forse perfino la sua voce non era più la stessa. Forse dalle sue labbra ora usciva un gracchiante e monotono timbro artificiale, incapace di intonare un canto. Se era così preferivo non sentirla, preferivo ricordarla come l'avevo immaginata. Molto meglio, allora, se non riuscivo ad avvicinarla, piuttosto che scoprire...
Smisi di suonare e aprii gli occhi, e nel velo umido che li annebbiava le luci dell'albero di Natale mi apparirono più scintillanti che mai, stelle in terra che si riflettevano sui vetri, sulle sfere colorate appese ai rami d'abete e sulla carta lucida dei pacchi che la mia famiglia mi spediva da quando il mio mondo era diventato silenzioso e avevo smesso di tornare a casa per le feste per evitare la loro imbarazzata compassione, che mi offendeva e mi feriva più dell'indifferenza di un estraneo.
Mi alzai dalla panchetta e mi sdraiai sul tappeto bianco, spesso e soffice, che mi accolse con la sollecita carezza che io avevo riservato al pianoforte. Mi sdraiai su un fianco e raccolsi le gambe e le abbracciai in posizione fetale, la vista ancora annebbiata dalle lacrime ma le orecchie bene aperte.
Nel silenzio del mio appartamento, accompagnato dal crepitio e dagli schiocchi occasionali delle fiamme sui ceppi, dischiusi le labbra e intonai con la mia voce che mi era divenuta estranea un canto morbido, ripetei come meglio potevo le parole che Karin aveva scritto sulla mia melodia ma a un certo punto deragliai dal testo e cominciai a cantare liberamente di tutto quello che mi era accaduto, di come avevo conosciuto Karin e di come ero giunto ad amarla e di come mi era stata strappata via all'improvviso, come un filo che si spezza, solo per riapparire diversa, sempre lei, ma in un corpo senz'anima. Cantai per l'abete addobbato e per i regali nei loro involucri rossi bianchi e verdi e per il pianoforte muto e per il fuoco nel caminetto. Cantai per un miracolo di Natale, per far tornare indietro il tempo, per riavere lei, anche solo per un giorno, cantai perché per quel desiderio avrei sacrificato tutto, anche il poter sentire la musica, anche il sentire la mia voce, anche il sentire la sua di voce, la sua vera voce, quella di quand'era viva, una donna e non una cosa, per poterla ricordare per il resto della mia vita.

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