lunedì 20 febbraio 2023

Momenti di ordinario imbarazzo


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Ryanniel Masucol da Pexels


Il secondo mattino in cui mi svegliai con lui al mio fianco fu meno traumatico del precedente. In parte, perché non mi aspettavo più che lui non ci fosse. In parte, perché di risvegli così ne avevo avuti parecchi, nella serata di ieri e per tutta la notte, nel corso dei nostri tentativi infruttuosi di farlo tornare, attraverso un sogno, nel posto da cui proveniva.
Quando aprii gli occhi e lo vidi infilato nel mio letto come sempre, fui io a ribadire l'ovvio con voce piatta e assonnata: – E anche stavolta, non ha funzionato.
Non c'era più alcun imbarazzo da parte mia, solo stanchezza.
Lui si girò dall'altra parte, si liberò con un gesto nervoso delle lenzuola e si alzò di scatto.
Capivo la sua frustrazione. Era la stessa che provavo io, se si eccettuava che per lui era anche questione di vita o di morte.
Passeggiò con nervosismo fino all'altro lato della camera, si fermò di fronte all'armadio e disse: – Non possiamo continuare con questi tentativi casuali. Diventa ogni volta più rischioso.
– Quei cosi, gli assassini onirici...?
Lasciai la domanda a metà. Avevamo subito due agguati, uno all'inizio, quando lo avevo "materializzato" nella mia camera dal mondo di sogno a cui apparteneva, e l'altro nel cuore della notte, subito dopo uno dei nostri risvegli.
Lui li aveva sventati entrambi, fortunatamente senza fare abbastanza rumore da svegliare le mie coinquiline. Ma avremmo potuto non essere così fortunati, in futuro.
– Non sanno dove mi trovo, o sarebbero già arrivati in molti, tutti assieme. Ma ogni volta che entro o esco da un universo bolla, qualcuno di loro può rintracciarmi, seguirmi. E questo significa che la prossima volta potrebbero anche sorprenderci nel sonno.
L'idea mi fece rabbrividire. Anche se non ero io il loro bersaglio, niente mi assicurava che non avessero in mente di completare il lavoro eliminando anche un'innocua testimone. Un classico caso di "nel posto sbagliato al momento sbagliato". E con la compagnia sbagliata, soprattutto. 
– Facciamo una pausa. Forse dopo colazione ci verrà in mente un'idea migliore.
E con "ci" intendevo che a lui sarebbe venuta in mente. Io non avevo la più pallida idea di come funzionassero queste cose.
Prima che potessi aggiungere altro, o che lui potesse rispondermi, una terza voce, allegra e stridente, si fece sentire dall'altro lato della porta chiusa della mia camera.
– Valeeee, sei al telefono? Io e Terry andiamo all'uni, tu come ti senti oggi?
Era Gemma, una delle due coinquiline. A loro avevo dato a intendere che non ero andata a lezione il giorno precedente perché non stavo bene, il che mi aveva dato anche la libertà di non farmi vedere per tutta la giornata, che avevo in realtà passato fuori a vagare da un posto all'altro con il mio irrequieto ospite.
– Mi sa che non mi è ancora passato quello che mi sono presa... – mormorai in tono lamentoso verso la porta, mentre sbirciavo il ragazzo dagli occhi arcobaleno che attendeva in silenzio l'evolversi degli eventi. In fondo, in un certo senso, non stavo mentendo.
– Hai febbre? Nausea? Tosse? Ti devo portare qualcosa? Fa' un po' vedere... – propose Gemma in un tono che oscillava tra quelli da madre premurosa e da vicina pettegola.
Le dissi di no, e più di una volta, ma quando avvertii i suoi passi che si avvicinarono comunque alla porta, pur di farla desistere le urlai la prima cosa che mi venne in mente: – Gemma ti prego non entrare... non sono vestita!
Gemma ridacchiò, appena al di là della porta. – Andiamo Vale, come se non avessimo fatto più di una volta una serata film e chiacchiere in libertà sul divano! Ti ho già vista girare per casa in canotta e mutandine, dove sarebbe la novità?
Avvertii, a quelle parole, un paio d'occhi arcobaleno fissi su di me e un calore imbarazzato mi avvampò le guance. Gemma non poteva sapere che stava sciorinando quei dettagli privati in presenza di un estraneo.
Il mio avvertimento non era bastato a dissuaderla dal suo intento, perciò, quando vidi la maniglia della porta abbassarsi, feci di nuovo la cosa sbagliata, l'unica che nel mio stato mentale di confusione e disagio avesse un minimo di senso.
Mi tolsi più in fretta che potevo la maglietta e i pantaloni del pigiama, restando davvero in canotta e mutandine.
A mia discolpa, posso dire che pensavo di riuscire a fiondarmi alla porta una volta tolto di mezzo il pigiama, impedire a Gemma di aprire più dello spiraglio sufficiente a dimostrarle che dicevo il vero, e convincerla in qualche modo ad andarsene. Ma non avevo calcolato bene i tempi.
Nel tempo che io ci misi a togliermi il pigiama, Gemma aveva già spalancato del tutto la porta, e così vide che io sì, avevo detto la verità, ma anche che non ero da sola nella stanza.
E così, invece di impedirle di scoprire il mio ospite, avevo appena reso più compromettente la mia posizione nel quadretto che Gemma si ritrovò di fronte. E non importava che lui fosse vestito di tutto punto, con tanto del suo ridicolo cappello a cilindro e dei guanti. Io ero in canotta e mutandine.
– Oho, l'uomo dei disegni! – esclamò Gemma, in tono ancora più acuto e garrulo. Sapevo che non le sarebbe stato difficile riconoscerlo dai ritratti che avevo mostrato a lei e a Teresa, quando pensavo che le mie visite notturne e ripetute al circo dove lavorava fossero soltanto una lunga sfilza di sogni ricorrenti. – Ma allora esisti davvero, non sei solo una fantasia erotica della nostra Valeria! Sapessi quante volte ti ha sognato...
Mi coprii con le mani il volto, che dopo quelle esternazioni doveva aver assunto la stessa tinta di un pomodoro maturo. Oddio, Gemma, sul serio? Vuoi raccontargli qualcun'altra delle confidenze che ti ho fatto e che sarebbero dovute rimanere un segreto tra ragazze? E davvero non importava che lui sapesse quante volte lo avevo sognato perché ogni singola volta era stato lì con me, e che fosse perfino al corrente che i nostri incontri notturni non fossero affatto quello che Gemma li stava facendo sembrare, perché lei queste cose non avrebbe dovuto raccontarle a un estraneo.
– Gemma, per favore... puoi lasciarci da soli? – riuscii a mormorare mentre lei riprendeva fiato, e il mio sguardo supplichevole sopra alle dita scostate dagli occhi fu sufficiente a convincerla che, nel quadretto che lei si era fatta della situazione, la sua presenza era di troppo.
– Oh? – la mia coinquilina squadrò per un istante prima lui, fermo in silente attesa, con una mano sollevata alla falda del cilindro come bloccata in un cenno di saluto da quando lei aveva aperto la porta, che poteva sembrare un gesto di imbarazzo ma che in realtà immaginai fosse un espediente per celarle i suoi strani occhi, e poi me, in piedi, rossa in volto e in déshabillé. – Oh, sì, certo. Certo! Vi lascio subito soli.
Il suo sorriso sornione diceva tutto quello che lei pensava sarebbe accaduto, una volta che se ne fosse andata. Mi avvicinai per spingere Gemma fuori dalla stanza e richiudere la porta, dato che nonostante le sue parole la mia coinquilina impicciona pareva ancora restia ad andarsene.
– Mi raccomando, eh! – Mi fece ancora Gemma, con una strizzata d'occhio, prima che riuscissi a chiuderla fuori. Sospirai e appoggiai la fronte alla porta.
Sentii Gemma, in corridoio, che riferiva in un chiacchiericcio ciarliero a Teresa la svolta inaspettata che aveva preso quella vecchia storia dei sogni ricorrenti. Rimasi in ascolto finché, dopo un po' di gironzolare accompagnato da risatine e battute allusive, non le udii uscire dalla porta di casa. Solo a quel punto mi voltai.
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno, lasciato a sé stesso, si era messo a frugare nei miei cassetti. Lo sorpresi con una delle mie mutandine bordate di pizzo allargate tra le dita.
Gemma se n'era andata, sì, ma l'imbarazzo che aveva portato il suo arrivo era rimasto qui con noi, nella mia camera.
– Non toccare le mie cose! – sbottai, mentre gli prendevo di mano le mutandine e le ficcavo nel cassetto. Recuperai quello che mi serviva per la giornata e prima di andarmene in bagno a vestirmi, gli raccomandai: – Tu non ti muovere. Non toccare niente. Resta qui, fermo, immobile, finché non ti chiamo!

Sul tavolo della cucina trovai, fresco di bucato, uno dei completini sexy che di solito mettevo per uscire a festeggiare con Gemma e Teresa dopo un esame particolarmente difficile. Nessun uomo li aveva mai visti, li indossavo perché, dopo tutto lo stress dello studio, mi faceva piacere sentirmi bella oltre che intelligente. E inoltre, chissà, una volta o l'altra qualcosa sarebbe anche potuto accadere.
Accanto alle mutandine, di un seducente rosso ma quasi trasparenti da quanto erano traforate, trovai un biglietto su cui le mie coinquiline avevano scritto "Vale, la prossima volta che inviti qui il tuo uomo dei disegni metti queste, non i mutandoni della nonna. Non ti ha insegnato niente Bridget Jones? Firmato: Gem & Terry".
Scossi la testa. Gemma aveva esagerato, ovviamente, quello che mi aveva visto addosso era un comune slip da donna di tipo sportivo, non certo il mutandone formato maxi che portava la protagonista di quel film. Ne avevo un paio dello stesso tipo sotto alla maglietta lunga che mi faceva da mini abito quella mattina. Niente pantaloni, perché si avvicinava l'estate e cominciava a fare caldo di giorno, e alla fin fine avevo deciso che assassini onirici e un ragazzo che non sarebbe dovuto essere reale erano già deviazioni fin troppo consistenti dalla mia routine, e se c'era qualcuno che doveva adattarsi, qui, erano loro.
E inoltre io dovevo imparare a vincere quell'inutile imbarazzo, perché non avevo fatto niente di male... a parte, come mi aveva ricordato lui fin troppe volte, abbracciarlo mentre stavo per svegliarmi e, quindi, portarlo con me fuori dal sogno.
E io, ogni volta, gli avevo spiegato che lo avevo fatto solo perché ero convinta che non sarebbe accaduto quello che invece era successo, e che se lo avessi saputo, di certo non mi sarei mai azzardata a farlo.
Feci sparire la nota delle mie coinquiline e nascosi il completino sexy dietro i cuscini e l'ukulele di Teresa abbandonati sul divano, prima di chiamarlo. Anzi, non lo chiamai, gli dissi solo che poteva venire, perché in fin dei conti io non lo conoscevo il suo nome. Poi mi versai nella tazza un po' di latte e caffè caldi, senza aspettarlo, e senza prepararne una seconda per lui. Per tutto il tempo che avevamo trascorso assieme non lo avevo mai visto bere o mangiare, e ormai dubitavo che ne avesse bisogno.
Mentre placavo la mia fame, io che invece di mangiare non potevo fare a meno, lo osservai gironzolare per la grande stanza che era insieme la cucina, la sala da pranzo e il salotto dell'appartamento che condividevo con Gemma e Teresa. Il ragazzo dagli occhi arcobaleno mi sembrò molto più rilassato rispetto a come mi era apparso durante la colazione del giorno prima. Allora era stato teso, in allerta, sempre sul chi vive, in attesa del prossimo attacco da parte degli assassini onirici che, a suo dire, avrebbero potuto sorprenderci ovunque e in qualunque momento.
Ora che aveva intravisto uno schema nei loro attacchi, o meglio, nell'assenza dei loro attacchi, il suo atteggiamento guardingo aveva lasciato spazio a un'invadente curiosità. Dopo un po' di quel viavai che aveva cominciato a darmi sui nervi, il ragazzo puntò con decisione sul divano.
Sapevo che avrei dovuto distrarlo dal suo proposito, dirgli qualcosa, ma avevo mezzo biscotto in bocca e quindi non dissi nulla. Mi limitai a guardarlo mentre si sedeva accanto al bracciolo, si girava a fissare l'ukulele e lo afferrava.
Dietro lo strumento spuntarono le mie mutandine sexy. Rosso su fondo crema. Impossibile non notarle.
E io che pensavo di aver lasciato l'imbarazzo in camera da letto.
Mandai giù in fretta il biscotto e gli spiegai: – È di Teresa! – Il boccone mi si bloccò in gola, rendendo la mia voce stridula. Bevvi un sorso di latte per sciogliere quel groppo e aggiunsi: – L'ukulele è di Teresa.
E lasciai che traesse le sue conclusioni su ciò che c'era dietro. Così, almeno, non era una bugia.
– Non credo che se ne avrà a male, purché io non tocchi altro – commentò il ragazzo. Si appoggiò al petto lo strumento e iniziò a trarne una melodia lenta, ipnotica, con una maestria che non avevo mai udito dalle dita di Teresa. Fuori dalla finestra aperta, gli uccellini che cinguettavano tra i rami del viale e che fino ad allora avevo bellamente ignorato mi sembrarono all'improvviso adeguare il canto alle note dell'ukulele, come se stessero accompagnando la sua musica, o come, più probabilmente, se la musica che il ragazzo dagli occhi arcobaleno stava improvvisando fosse modellata sul loro canto.
Andiamo, mi dissi, considerando l'assurdità di quella prima impressione, non siamo certo in un film della Disney!
Per tutto il tempo di quella colazione non parlammo, lui concentrato nel suonare l'ukulele, e io nel placare i morsi della fame. Se non fosse stato per gli sguardi attenti che volgeva di tanto in tanto in giro per la stanza, avrei potuto immaginare che lui fosse solo un ragazzo qualunque, che era rimasto a farmi compagnia perché davvero lo voleva, e non perché non aveva altro posto dove andare e io gli servivo per tornare nell'unico luogo in cui era al sicuro. Non fosse stato per la minaccia degli assassini onirici, mi dissi, lui sarebbe anche potuto rimanere qui, con me, nel mondo in cui l'avevo involontariamente trascinato. Certo, avrei dovuto fare in modo di fargli ottenere un'identità, se fosse rimasto, e i suoi strani occhi sarebbero stati un problema, ma non tale da non poterlo risolvere con delle lenti colorate; quanto ai segni sul suo volto, quelli che inizialmente avevo considerato parte del suo trucco di scena ma che ora non ero più tanto sicura che non fossero parte della sua carnagione naturale, be', potevano sempre passare per tatuaggi. In fondo, sarebbe poi stato tanto male, se lui fosse rimasto nel mondo reale con me? Il resto della colazione lo passai fantasticando su quello scenario impossibile, ma tanto, tanto desiderabile.

Dopo aver lavato la tazza della colazione e rimesso a posto l'ukulele di Teresa, finalmente ci mettemmo seduti a tavola a parlare.
– Allora... – esordii io, e non sapendo da dove cominciare, mi venne in mente che potevo iniziare dall'inizio. – Come ci sei arrivato, intendo al circo, la prima volta?
– Sono stato scortato... – Il ragazzo dagli occhi arcobaleno s'interruppe di colpo, come se fosse stato sul punto di dirmi qualcosa che non voleva che io sapessi, e poi riprese a spiegare: – Colui che gestisce il circo era... amico di mio padre, e quando mi sono ritrovato in pericolo, ha accettato di darmi rifugio.
– Mmmmh... – Appoggiai il mento sul palmo della mano. Mi ero resa conto, forse per la prima volta, che un'altra cosa che non sapevo di lui oltre al suo nome era il motivo per cui gli assassini onirici lo volevano morto. Così glielo dissi.
– È meglio per te non saperlo – replicò lui. – Sei più al sicuro così.
– Oh, già perché sono perfettamente al sicuro ogni volta che mi addormento con te accanto, vero? – replicai, nel raddrizzarmi e battere entrambe le mani sul tavolo. Non riuscii a strappargli un sussulto come avevo sperato, lui si limitò a fissarmi con quei suoi occhi dalle sfumature impossibili al di sopra del cilindro appoggiato sul tavolo. – Insomma, se devo prendermi questo rischio, e non cominciare a dire che è stata colpa mia, voglio almeno sapere perché lo faccio. Per chi lo faccio.
Lui restò in silenzio ancora per qualche istante, prima di rispondere – D'accordo.
Non me l'ero aspettato. Non prima di combattere un altro po'.
– Per dirlo in termini che tu possa comprendere – mi disse lui, in tono pacato e serio. – Mi vogliono morto perché io sono l'erede al trono.
Quella spiegazione mi sembrò tanto una scusa, e nemmeno molto fantasiosa. Una motivazione che sarebbe potuta saltar fuori senza preavviso in un banale romanzo. Fu per questo che la mia voce risuonò di scetticismo quando gli chiesi: – Ah sì? E di quale nazione? – Poi realizzai, e mi corressi: – Pianeta?
Ma certo. Non lo avevo considerato perché lui sembrava così umano, molto più umano degli altri che avevo visto lavorare al circo, più umano della ragazza ragno e del Ghiottone di sicuro, e anche della donna d'oro che a volte avevo visto fare coppia con lui sul trapezio o fargli da assistente nei numeri di illusionismo o da bersaglio nel lancio del coltelli.
Così umano, che non avevo considerato che i suoi occhi color arcobaleno, o le strisce scure composte da forme geometriche perpendicolari a quegli occhi, potessero essere l'unico indizio esteriore che il mio misterioso principe circense era un alieno.
Lui mi rivolse un sorriso enigmatico e mi disse: – Non stai pensando abbastanza in grande.
La presi come una sfida.
– Sistema solare? – Lo incalzai allora. – Federazione di pianeti? Galassia? Unione galattica?
Lui non confermò nessuna delle risposte che gli avevo proposto. Mi bloccai. Non mi veniva in mente nulla di più grande.
– Di tutto – rivelò lui a quel punto. E, dato che ancora stentavo a realizzare, aggiunse: – L'universo. Tutto quanto.
– Sul serio? Non mi stai prendendo in giro? – fu la mia prima reazione. Lo fissai aspettando che mi dicesse da un momento all'altro "stavo scherzando!", ma lui non lo disse.
– Sul serio – replicò invece, e il tono in cui lo disse, la sua espressione, mi rivelarono che mi stava dicendo la verità.
Una parte della mia mente però ancora si ribellava e cercava appigli nella logica. Udii la mia voce tremante dire: – Ma... ma no, è impossibile, non esiste un signore di tutto l'universo...
E allora, solo allora, realizzai davvero. Scattai in piedi e mi allontanai di un passo dal tavolo, da lui. La sedia si rovesciò a terra alle mie spalle.
L'imbarazzo di quella mattina, con le insinuazioni di Gemma e con la scoperta della mia biancheria osé nascosta malamente dietro un ukulele, non era nulla di fronte al calore rovente che sentii in quel momento scendermi nel petto e affossare il cuore nello stomaco, mentre il mio respiro si faceva più corto e più rapido. Annaspai, incapace di riempire i polmoni. Il mio cuore batteva un forte ritmo di tamburo e mi doleva in petto. Affamata d'aria, febbricitante, ripensai ai momenti d'imbarazzo vissuti in sua presenza, e a tutte le volte in cui lo avevo trattato con eccessiva confidenza, anzi, a volte addirittura in modo sgarbato, e perfino alla puerile fantasia che avevo nutrito quella mattina, a colazione, di tenerlo accanto a me, nella mia vita, come una specie di clandestino che avrebbe dovuto nascondersi nel mio mondo solo perché io me ne ero infatuata, e riconsiderai tutto alla luce di ciò che avevo scoperto su di lui negli ultimi minuti.
Era tutto sbagliato. Era sbagliato, e imbarazzante, e sbagliato, e sbagliato, e io non sapevo più come avrei dovuto rivolgermi a lui. A Lui.
Da qualche parte, nel groviglio di ansia dilagante e rovente che ero diventata, avvertii le sue mani sulle mie spalle.
– Calmati – mi disse la sua voce, molto lontana in un primo momento, poi vicinissima, di fronte a me. – Calmati, Valeria. Va tutto bene. Va bene così, e davvero, non importa. L'unica cosa che conta, è che ora sai chi stai aiutando.
La sua voce calma, ipnotica come le note che aveva tratto dall'ukulele mi restituì al mondo, e restituì il mondo a me. Ripresi a sentire il canto degli uccellini fuori dalla finestra, e il profumo del caffè rimasto nel bricco, e la maglietta che ora avvertivo fastidiosamente appiccicata alla pelle per il sudore.
Il ragazzo dagli occhi di arcobaleno, il principe dell'universo, avvicinò il suo volto al mio, e per quanto assurdo dapprima pensai che volesse baciarmi e mi tornò un accenno del panico che mi aveva appena abbandonato, mentre il respiro riprendeva a farsi corto e ansante. Poi mi resi conto che stava avvicinando le sue labbra al mio orecchio, e mi rilassai.
Se avessi saputo prima cosa stava per dirmi, non mi sarei calmata affatto.
– Ne hai uno alle tue spalle – mi sussurrò lui, e non fu necessario che specificasse che cosa. – Passami quelle forbici lì, sul tavolo.
Non mi sembrò strana come scelta, per un'arma improvvisata: la prima volta che lo avevano attaccato, lui aveva "fatto fuori" gli assassini onirici con il mio tagliacarte.
Mi allungai verso il tavolo, afferrai le forbici e le consegnai alla sua mano, che nel frattempo era scesa dalla mia spalla fino ad accarezzarmi le dita.
Non appena le ebbe afferrate alla cieca dalla mia mano lo vidi sparire, tanto fu rapido il suo assalto contro l'ombra evanescente che era giunta a minacciarlo. Mi girai appena in tempo per scorgerlo sbattere al muro le sembianze indistinte dell'ombra assassina.
C'era qualcosa di sbagliato, ma non riuscivo a capire che cosa.
Forse perché nessuno degli assassini onirici in precedenza aveva mai emesso un suono, e invece questo stava gracchiando qualcosa in una lingua che io non riuscivo a comprendere.
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno tenne ferma l'ombra stringendola per quella che sembrava una gola, e sollevò sopra di lei le forbici. E allora, soltanto in quel momento, come se avessi capito in ritardo la battuta di una barzelletta pronunciata istanti prima, o come se la mia mente avesse finalmente trovato la chiave per decifrare un messaggio segreto, le parole dell'assassino onirico acquistarono un senso.
"Sono qui per avvisarti, hai ancora messaggeri che ti sono leali, ma non ti fidare di lui, lui vuole soltanto..."
–  Aspetta! – urlai tendendo una mano, ma era troppo tardi, l'ombra evanescente scomparve prima ancora che le forbici la sfiorassero, e a quel punto non importò più che il ragazzo dagli occhi arcobaleno mi avesse dato retta e si fosse trattenuto.
Solo allora mi resi pienamente conto del motivo della mia prima impressione. Quella cosa era venuta da sola, ed rimasta ferma alle mie spalle invece di attaccarci quando lui si era accorto della sua presenza, e non aveva reagito in nessun modo quando era stato il principe dell'universo ad aggredirlo.
Quello non era mai stato un assassino. Ma allora, se non era tale...
– Che cos'era? – gli chiesi, forse in modo un po' troppo perentorio, ma non ebbi il tempo di pentirmene.
– Un ambasciatore. Un messaggero. – Il tono del ragazzo dagli occhi color arcobaleno, il suo atteggiamento nei miei confronti, non erano cambiati, e forse voleva suggerirmi che io non dovevo cambiare i miei. Mi ricordò il tempo che avevamo trascorso assieme in un sogno, quando mi trattenevo dopo lo spettacolo e lui mi mostrava quello che allora avevo considerato "il suo mondo", e i momenti che passavamo da soli in attesa del mio risveglio. Non c'era stato imbarazzo, allora, no, nessun imbarazzo.
E io potevo anche averlo ignorato, ma lui sapeva fin dall'inizio, perfettamente, chi era lui e chi ero io.
L'unica cosa che era cambiata, per lui, era che ora non mi nascondeva più nulla.
– Un messaggero – ripetei. Capivo quello che intendeva, perché mi ricordavo quale parola greca si traduceva in quel modo. – Ma perché all'inizio non capivo quello che stava dicendo, e poi il senso delle sue parole mi è arrivato in ritardo, come... come una traduzione fuori sincrono?
Il ragazzo dagli occhi arcobaleno sospirò e mi spiegò: – Io parlo in ogni istante, contemporaneamente, ogni lingua esistente nell'intero creato. Sì, in ogni istante, anche ora. Ma tu senti soltanto quella che ti è più familiare, ed è bene così, o la confusione sarebbe tale che non riusciresti a comprendermi.
– Va bene, ma... – Stavo per dirgli che io vedevo le sue labbra muoversi in sincrono con le parole nella mia lingua, e che quel labiale non poteva certo coincidere con le parole di tutte le altre lingue, ma in fin dei conti quella era una questione triviale rispetto alle altre.
– I messaggeri hanno lo stesso dono – mi interruppe lui, forse supponendo che la mia obiezione riguardasse quella faccenda. – Solo che in loro è imperfetto. Per questo, tu non lo hai capito subito.
– Tu sì, invece. – Ma certo, era ovvio. – Tu sì, e volevi comunque mandarlo via, senza ascoltarlo, senza lasciargli il tempo di completare il suo... il suo messaggio!
Il cuore tornò a battermi forte nel rivolgergli quelle accuse. Il mio corpo mi rammentava che io non avevo alcun diritto di criticare lui, che dovevo ricordarmi chi avevo di fronte prima di arrogarmi il diritto di biasimarlo. Cercai di ignorare quello che lui mi aveva rivelato, cercai di comportarmi in maniera normale. Ci provai, almeno, ma non era detto che sarei riuscita a controllare l'ansia, il cui calore tornava a bruciarmi, o forse mi stavo scaldando semplicemente perché davvero io ero indignata.
– Stava mentendo. Non esistono messaggeri leali a mio padre, non più – ribatté lui in un brontolio cupo. Per la prima volta da quando lo avevo conosciuto, avvertii che stava per perdere la calma. I suoi passi avanti e indietro per la stanza si erano fatti nervosi, pesanti, e non aveva più la postura dritta ed elegante di un equilibrista. Camminava curvo, i pugni stretti.
– Come puoi esserne sicuro...
– Ah, Valeria... – Si fermò e mi fissò e i suoi occhi luccicavano di un fuoco dalle fiamme arcobaleno. – Ne sono sicuro, invece, perché mio padre è morto, assassinato dall'usurpatore che ha preso il suo posto e adesso comanda le legioni dei messaggeri, e hanno tutti l'ordine di uccidere me, e tu mi hai strappato dall'unico posto in cui non avrebbero potuto raggiungermi, in cui potevo restare al sicuro fino al giorno in cui non fossi stato abbastanza forte da sfidare l'usurpatore e riprendermi... il posto... che mi spetta.
La rabbia fluì via da lui al termine di quella confessione, come se raccontarmi tutto quello che mi teneva ancora nascosto avesse tolto potere alla fonte del suo rancore.
Anch'io ne rimasi del tutto priva, di rabbia, intendo. Mi restava solo lo sgomento. – Il signore dell'intero universo... è morto?
– Già, e tu ti chiedevi come mai le cose andassero a rotoli, ultimamente? – ribatté lui, con una traccia dell'arguzia che avevo imparato ad amare in un affascinante circense dagli occhi color arcobaleno, il volto dipinto e il cappello a cilindro. – Chi ne ha preso il posto è un incompetente. Ecco perché.
C'era però anche una traccia di amarezza nel suo tono di voce, che mi spinse a pensare, solo per un momento, che avrei di nuovo voluto abbracciarlo. Ma non osai farlo, maledetto imbarazzo.
Avrei dato anche un migliaio dei miei ricordi, non uno soltanto come prezzo del biglietto di ingresso, se fosse stato possibile tornare indietro a quel tempo, ai nostri incontri in un sogno, e abbracciarlo tutte le volte che volevo, senza pudore, senza pensare che non potevo perché lui era il figlio del signore dell'intero universo, il suo erede al trono, anzi, ormai, il legittimo signore dell'intero universo, una volta che fosse riuscito a sistemare le cose.
Tutte le volte che volevo, tranne, ovviamente, quando stavo per svegliarmi. Non avrei commesso due volte il medesimo errore.
Se solo fossimo potuti tornare...
Alzai la testa. – Ehi! – lo chiamai, perché ancora non sapevo con che nome chiamarlo. Quello che mi pareva il più ovvio, il più scontato, non mi sembrava quello giusto, e proveniva solo da una tra le tante fonti a mia disposizione sull'unico pianeta che conoscevo, e comunque avevo i miei dubbi che fosse stata scritta dal diretto interessato. – Se non ho capito male, hai detto che la prima volta, a portarti dentro l'universo bolla in cui ti ho trovato, intendo fisicamente dentro e non solo in un sogno, è stato il direttore del circo, ovvero quello che chiami il Ghiottone.
– Sì –  ammise il ragazzo dagli occhi arcobaleno. – Ma non può farlo, se non sa nemmeno dove mi trovo adesso. E io non posso dirglielo, visto che non riesco a entrare per conto mio. Come posso spiegartelo, dunque... la porta è chiusa e io non ho la chiave.
– Non della porta sul retro – confermai, perché quello ormai era assodato dopo tutti i tentativi che avevamo fatto. – Non puoi entrare nello stesso modo in cui ne sei uscito. Ma...
Mi veniva da ridere, e non riuscivo a credere che lui non ci avesse ancora pensato. Io non ci potevo arrivare prima di conoscere tutta la storia, ora sì ma non prima, anche se in fondo era sempre stata una possibilità sotto ai nostri occhi, ed era così semplice.
– ...esiste per caso qualche ostacolo che ci impedisca di entrare nel circo del Ghiottone come spettatori paganti, e una volta lì, andare da lui, spiegargli la situazione e farti aiutare?
Il principe dell'universo, il mio affascinante, misterioso circense dei sogni, il ragazzo dagli occhi arcobaleno scoppiò a ridere, e la sua era una risata di sollievo.
– A parte una schiera di angeli assassini che potrebbero sorprenderci nel sonno? – mi chiese alla fine. – No, assolutamente nessuno.

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