lunedì 13 febbraio 2023

Le fate


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Tú Nguyễn da Pexels


Io e la mia famiglia stavamo, quando ero bambina, in un piccolo appartamento di un enorme palazzone di città, senza giardino, e con uno stretto cortile di cemento dove batteva il sole d'estate e soffiava un vento gelido in inverno. D'inverno non m'importava poi molto: avevo la scuola, e troppi compiti per starci a pensare. Ma d'estate, quando la canicola rendeva ugualmente asfissiante l'aria nell'appartamento e giù in cortile, io andavo a passare un'intera settimana in campeggio da Ellie.
Ho detto campeggio, ma quello che intendevo dire era che il padre di Ellie montava una tenda nel giardino sul retro della sua casa, e io e la mia amica ci andavamo a dormire tutte le sere, tra il frinire dei grilli e il ronzio delle zanzare, dopo essere rimaste sveglie fino a tardi a raccontarci storie.
Non le solite storie spaventose di fantasmi che si raccontano di solito in campeggio, riuniti attorno alle fiamme crepitanti di un falò che riscalda i volti e li tinge di inquietanti bagliori cremisi. No, a Ellie non piacevano quelle storie.
Lei, perché era quasi sempre lei a raccontare, mi parlava dei piccoli e sfuggenti gnomi bruni dei boschi, dalla pelle di corteccia; dei folletti che cavalcavano i corvi e difendevano con i loro scherzi le minuscole città costruite nei boschi; e delle graziose fatine che mutavano in insetti, per non farsi riconoscere, appena qualcuno le avvicinava.
Qualche volta, presa dal racconto, Ellie mi trascinava via dalle nostre sedie davanti al fuocherello e mi portava a cercare le fate negli angoli più remoti del giardino, lontano dalle stringhe di luci che suo padre aveva appeso tra gli alberi del giardino e la sommità della tenda per farci compagnia nella notte. Nel buio brulicante dei puntini luminosi delle lucciole, che sembravano galleggiare nell'aria tiepida e immota, Ellie mi teneva la mano e mi indicava qualcosa che solo lei vedeva. Io mi sforzavo di guardare e alla fine le dicevo di sì solo per farla contenta, mentre in cuor mio pensavo che eravamo tutte e due troppo grandi per credere alle fate.
Una di quelle sere, poco dopo l'imbrunire, Ellie catturò un brutto e grosso insetto e corse verso di me con quella cosa tra le mani. – Guarda Miriam, ho preso una fata! – gridò, mostrandomi il suo prigioniero.
Non mi ricordo se quello era un insetto stecco, una cavalletta o una mantide religiosa, ricordo solo che era orrendo e io mi misi a strillare: – Buttalo via! Buttalo via Ellie, non portarlo qui, per favore, ti prego, no, non lo voglio vedere, no, no!
– Ma... è una fata, Miriam, te lo giuro! – provò a spiegarmi la mia amica. Si era fermata a qualche passo di distanza, permettendomi di calmarmi, e mi guardava con un'espressione contrita. – E una di quelle più grandi, anche. Di solito, te l'ho detto, sono così piccole da trasformarsi in farfalle o libellule, per farci credere di essere sempre state farfalle o libellule, e che siamo noi ad aver visto male. Ma questa era troppo grande, e ha dovuto cercare un altro travestimento quando si è accorta che l'avevo vista.
– Non mi importa se è una fata – replicai, cercando di non guardare le sue mani che tenevano con delicatezza l'insetto schifoso. – Per favore, Ellie...
– Va bene – concesse lei, con un passetto indietro. – La libero lontano dalla tenda, così non ti farà paura stanotte.
Nonostante quella precauzione, quella sera i miei pensieri continuavano a tornare al brutto insetto, e non riuscii a prestare troppa attenzione alle storie di fate della mia amica. Ellie spense il fuocherello come le aveva insegnato suo padre, e andammo a letto presto, ma io faticai a prendere sonno.
Forse fu la paura dell'insetto, forse fu per tutti i racconti che mi propinava Ellie prima di andare a dormire, ma quella notte feci un sogno strano. Sognai che ero nella casa di Ellie, e quello non era strano, perché ci entravo sempre per mangiare con lei e la sua famiglia, per andare in bagno o per giocare assieme a lei nella sua stanza. Lo strano era che io ero nascosta di fianco alla dispensa, nell'angolino per le scope tra il grosso mobile e la porta della cucina, e la mamma di Ellie, una donna alta e bionda e bella quanto la mia amica, era da sola ad affaccendarsi ai fornelli per la colazione quando Ellie era entrata dalla porta a vetri che dava sul giardino.
La mamma di Ellie le sorrideva, le porgeva un succo di frutta in un bicchiere di vetro e poi le chiedeva: – Dormito bene, Ellie?
– Sì, mamma – rispondeva lei, col bicchierone di succo tra le mani, appoggiata con i gomiti sul tavolo della cucina.
Fin qui tutto bene, ma la successiva domanda della mamma era: – Ti sei ricordata di sgranchirti le ali?
– Sì, mamma – rispondeva di nuovo Ellie, e beveva un sorso con un nitido risucchio.
– Sicura? – chiedeva la mamma, e con la voce che hanno sempre le mamme quando pensano che in realtà i compiti non li abbiamo fatti, o che la nostra stanza sia ancora in disordine, prendeva a rimproverare Ellie con queste parole: – Guarda che se non le sgranchisci tutte le mattine, poi non crescono bene.
Ellie sbuffava, beveva fino in fondo il suo succo e poi dal mio nascondiglio vedevo un bagliore sulla sua schiena. Dapprima era solo una luce indistinta, poi riuscivo a distinguere i contorni di un paio di piccole ali da farfalla, sottili e fatte di luce più che di materia. La madre di Ellie le si avvicinava, e a quel punto vedevo che le aveva anche lei quelle ali di luce sulla schiena, solo che le sue erano molto più nitide e grandi.
– Ellie, non davanti alla finestra! – la rimproverava la mamma nel raggiungerla accanto al tavolo, e allora le ali di luce di entrambe si richiudevano sulle loro schiene e sparivano sotto alle magliette. – Lo sai che se lei lo scopre non potremo più invitarla qui. Se solo sospetta qualcosa... non potrete più vedervi, te ne rendi conto?
– Tranquilla mamma, Miriam dorme ancora. Inoltre... – Ellie tracciava con un dito il bordo del bicchiere, un sorriso furbetto che le piegava le labbra. – Le ho fatto credere che le fate sono creaturine piccine picciò, così non penserà mai di cercarle di altre altezze. Non le verrà mai in mente che le fate possiamo essere noi.
A quel punto del sogno mi svegliai nella tenda, da sola. Ma questo era normale, perché Ellie si svegliava sempre prima di me. Tranne le volte in cui io mi svegliavo per andare in bagno e poi tornavo a dormire, ma non mi ricordavo se era successo anche quel giorno, prima di quello strano sogno, tanto vivido che mi era sembrato vero.
Mi stiracchiai e uscii dalla tenda. Ellie era lì fuori in giardino, già vestita e pettinata. Non so perché, forse ancora pensavo al mio sogno, ma quando la raggiunsi, le dissi che quella mattina, tornando indietro dal bagno, avevo visto una fata.
Ora, è possibile che il mio ricordo di quel giorno di tanti anni fa sia distorto, ma rammento nitidamente la sua espressione di puro terrore alle mie parole.
– N-ne sei davvero sicura? – mi chiese lei, la voce tremante, o almeno così io la ricordo. – Forse ti sei sbagliata...
– No, era proprio una fata – ribattei io, annuendo convinta. Poi, forse intimorita dallo spavento che avevo provocato, non me la sentii di raccontarle il mio sogno e le dissi invece: – Ma quando ha capito che la stavo guardando è diventata una farfalla, sai, una di quelle con le ali arancioni e nere, ed è volata via.
A quelle parole la mia amica rise, mi prese per mano e senza lasciarmi il tempo di fare colazione, mi trascinò in giro per tutto il giardino, dicendo: – Ma allora forse è ancora qua attorno, dai proviamo a cercarla, se siamo fortunate forse si è già ritrasformata in fata e questa volta, ne vediamo una tutte e due!

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