lunedì 28 marzo 2022

Melodia marina


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Foto di Kübra Arslaner da Pexels


Dicono di me che sono nato nella cupola. Non ho alcun ricordo dei miei genitori: si erano accorti presto di quanto io fossi diverso, e come sempre accade in questi casi, la loro risposta fu qualcosa di più di un semplice esilio. Lo chiamano esilio, questo è vero; ma in realtà, io fui scartato.
I Veri Umani, come amano definirsi, non ammettono che un mutato difettoso possa sporcare il loro prezioso corredo genetico.
Fui tra i più fortunati, poiché anche se noi Acquatici siamo dotati di branchie e di pinne, raramente un bambino da solo può sopravvivere in un mondo di prede e predatori. Ma invece di uno squalo o di un mostro marino, per primo mi trovò il banco, che divenne la mia famiglia. Da loro appresi come guizzare tra le alghe e gli scogli, per confondere i giganti del mare che ci prendevano di mira; imparai a cantare la melodia delle balene, che era diventata la nostra lingua, e che spesso accompagnavamo con strumenti fatti di conchiglie, di ossa di seppia e tendini, o dei tintinnanti tesori di metallo trovati nei relitti. Da quegli stessi relitti venivano le nostre storie, storie di un mondo diverso, il mondo di prima, in cui tutti erano Veri Umani, la Terra non si era ancora ammalata e i mutati non erano nati. Il banco migrava di luogo in luogo, in equilibrio tra i fondali e la superficie, che osavamo visitare solo di notte, lontani dalla luce deleteria del sole. Eravamo alla ricerca continua di nuovi pesci con cui sfamarci e nuovi relitti in cui trovare riparo, reliquie del mondo antico e conoscenza. Evitavamo le cupole, le enormi strutture trasparenti brulicanti di Veri Umani, e i loro rifugi più piccoli e isolati che spandevano una luce giallastra dagli oblò circolari, occhi spalancati di un mostro teso nella caccia.
Solo di tanto in tanto uno di noi si allontanava dal banco, quando nuotavamo in prossimità di una cupola, per andare in cerca di esiliati sopravvissuti. Fu così che il banco trovò me, e fu così che trovammo Celine.
Lei non aveva branchie, non aveva pinne, e quando il nostro compagno la trovò, stava annegando. Soffiò aria nella sua piccola bocca, e insieme la portammo in una grotta dall'ingresso sommerso. Lì, dove poteva respirare senza essere toccata dalla bruciante luce del sole, la neonata sarebbe potuta sopravvivere. Ma non da sola.
Per la prima volta da che i più anziani tra noi avevano memoria, il banco si stabilì in un circoscritto tratto d'oceano.
Celine aveva la pelle grigia e spessa, e piccole ali da pipistrello sulla schiena, che con il tempo si sarebbero rafforzate e cresciute: il tratto distintivo di quei mutati che avevano dato a sé stessi il nome di Gargoyle, e che sfuggivano alle ustioni del sole con un eterno pellegrinaggio aereo. La crescemmo come una di noi, insegnandole la nostra lingua e le nostre storie. Celine imparò a cantare sott'acqua e ad amare la carezza delle correnti che risuonavano d'echi nelle sue orecchie; apprese l'arte di nuotare per brevi tratti insieme al banco, trattenendo il fiato fin quando poteva, e a bere l'aria dalle nostre labbra quando il suo corpo non poteva più farne a meno, senza sprecarne neppure una bolla.
Ma per quanto lo desiderassimo, Celine non era una di noi. Per questo i più anziani, più lungimiranti degli altri, le insegnarono anche l'altra lingua, quella che si parlava fuori dall'acqua, che loro ancora ricordavano da un tempo più felice, un tempo in cui Acquatici e Veri Umani ancora si incontravano per i baratti e per le adozioni dei bambini con e senza branchie nati dal lato sbagliato della cupola. Quel patto che i Veri Umani avevano rotto con i primi esili.
La loro fu la scelta giusta, anche se mi pesò dovermi separare da lei. Accadde una notte, mentre nuotavamo vicino alla superficie. Per gioco, la spingevamo in alto, fuori dall'acqua, e Celine apriva le sue ali per restare un istante sospesa sulle onde. Ombre scure passarono sopra di noi, e la notarono, e scesero a vedere.
I Gargoyle, la sua gente.
Come io non volevo lasciarla, Celine non voleva andare via con gli sconosciuti simili a lei. Per convincerla, cantammo per l'ultima volta una melodia subacquea struggente e malinconica, il canto che raccontava la sua storia, un canto che il banco avrebbe portato con sé. Le mostrai le note suonate sulla mia conchiglia, e la lasciai nelle sue mani, con la promessa che se mai avesse avuto bisogno, io sarei accorso al richiamo di quel suono. Non credevo che lo avrei mai sentito al di fuori del banco.
Lei era dove doveva essere.
Fino ad ora.
Oggi Celine è tornata assieme a una schiera dei suoi nuovi amici, e propositi di guerra. Sono passati gli anni, lei è diventata adulta, eppure ricorda ancora la melodia marina che racconta la sua storia, e ricorda come i Veri Umani avevano trattato lei e me, e tanti altri giovanissimi esuli. I suoi propositi riecheggiano nel mio spirito ferito da quel rifiuto, e nella mente di tanti altri Acquatici. Non in tutti, poiché siamo un popolo notoriamente pacifico, ma in un numero sufficiente di noi per unirsi ai Gargoyle e attaccare una cupola dopo l'altra, reclamare le loro risorse e la loro tecnologia e tutto ciò che ci era sempre stato negato.
Compreso il diritto di esistere.

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