giovedì 3 marzo 2022

Il marinaio riluttante


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Kulbir da Pexels


Ero seduto alla scrivania nella mia cabina, severo e serio come si confaceva a un capitano. Più indietro, adagiata su una poltrona accanto ai tendaggi che nascondevano la parte privata della cabina, quella dove si trovava il nostro letto e la tavola da toeletta, c'era Ekira, il mio secondo in comando, mia moglie. Attorno a noi il nostro gioiello, il nostro sogno, la nave Fortuna Maior, unica al mondo nel suo genere, che gemeva e scricchiolava come se avesse temuto quel momento fin dalla sua creazione.
Era solo la mia impressione, lo sapevo, a farmi interpretare la consueta voce del legno in maniera diversa rispetto agli altri giorni. Avevo sempre trovato rassicurante quella melodia, il cedere lento delle assi elastiche alla carezza del vento che lassù, sopra il ponte, gonfiava le vele. Non erano diverse dal solito le grida dell'equipaggio che si accingeva alle manovre, o le strida dei gabbiani che erano saliti fin quassù a vedere il prodigio di una nave che solcava le nubi, o lo strisciare metallico delle catene e quello più languido delle corde che trattenevano al loro posto le casse nella stiva. Eppure, quello era un giorno diverso dagli altri. Un giorno che poteva porre la parola "fine" alla nostra impresa.
Rivolsi la mia completa attenzione alla figura dai capelli rossi, al suo ghigno furbesco, da volpe, dopo che ebbi soppesato le sue parole. "Perché?", avrei potuto chiederle, ma conoscere il motivo della sua ostilità non avrebbe cambiato la situazione, mi avrebbe solo fatto apparire debole.
– E così, alla fine, hai capito. – Ekira si alzò dalla poltrona e parlò in mia vece. – Non mi stupisce. Non c'è limite a quello che può fare una donna, se è abbastanza motivata.
Mentre Ekira mi si affiancava, io seduto e lei in piedi, vidi il ghigno di colei che mi stava di fronte vacillare in una smorfia. – O un uomo – completò la nostra ospite, con una voce tanto grave da parere maschile. Nel proseguire, riprese il tono beffardo, indefinibile, con cui aveva esordito quando le avevo dato udienza nella mia cabina. – Capitano, non c'è motivo di rompere il vostro bel giocattolo – allargò le braccia verso le pareti lignee della cabina, la cui musica scricchiolante faceva da sottofondo alla nostra conversazione. – Possiamo entrambi ottenere ciò che vogliamo. Io me ne vado da qui, e con me se ne va il vostro segreto. Nessuno a bordo saprà mai come funziona tutto questo. Continueranno a sognare una nave volante, beatamente inconsapevoli...
Batteì una mano sulla sulla scrivania, zittendola prima che potesse pronunciare la successiva minaccia. E ne misi in campo una a mia volta. – C'è un altro modo di risolvere il problema – dissi, alzandomi. – Molto semplice, e definitivo. Posso gettarti fuoribordo.
La mia voce si fece cupa, e accanto a me Ekira trattenne il fiato e sbirciò nella mia direzione. Sapevo che cosa si chiedeva. Avevo intenzione di farlo davvero, volevo davvero uccidere una persona, un membro del nostro equipaggio?
Non potevo dirle che il mio era un bluff, ma non fu necessario. Il nostro mutevole marinaio dai capelli rossi, difficile dargli un nome dato che lo variava, assieme alla personalità, più spesso di quanto non si cambiasse d'abito, reagì alla mia minaccia con uno scoppio di riso.
– Credete che non ci abbia pensato, capitano? – ribatté al termine delle risate. Il timbro della sua voce si fece aspro, sbrigativo. – Ho i miei piani, capitano, piani che si metteranno in moto nel caso della mia morte, e il vostro bel segreto verrà a galla lo stesso, e la vostra bagnarola affonderà... precipiterà – si corresse. Raddrizzò la schiena e concluse, in tono più morbido, femminile eppure sprezzante: – E così, nessuno di noi otterrà ciò che desidera. Non sarebbe molto più facile fare le cose alla mia maniera?
Nel silenzio che seguì, rotto solo dai due rintocchi della campana di bordo che si udivano nitidi al di sopra dei gemiti del legno e del soffio di un vento sostenuto, Ekira cercò di prendermi sottobraccio, ma io mi scostai da lei. Avevo bisogno di pensare.
– Perché? – chiese infine alla nostra ospite, lei che poteva. Io lo immaginavo, perché non è che la rossa fosse salita a bordo di sua spontanea volontà. Era una truffatrice, ed era stata truffata a sua volta per "convincerla" a far parte dell'equipaggio, e ormai a questo punto lo aveva capito. Ma io speravo, speravo con tutto me stesso che a dispetto del modo in cui l'avevamo reclutata, i mesi passati a familiarizzare con il resto dell'equipaggio e le straordinarie avventure vissute a bordo avessero potuto attenuare la sua repulsione nei nostri confronti. Lo avevo sperato, prima di quel momento, e davvero sembrava che lei si fosse integrata con l'equipaggio. Ma ora sapevo che era stata solo un'altra delle sue recite.
– Perché, signora Bright? – di nuovo la voce della rossa era mutata in un tono divertito, che si fece carico di disprezzo alle successive parole: – Io non sono il vostro burattino. Non potete muovere i miei fili senza aspettarvi di rimanere ingarbugliati. Avete voluto mettermi in una prigione di legno nel bel mezzo del nulla, avete voluto strapparmi dalle mie radici a terra, tra la gente, tanta gente, con la facoltà di andare dove più mi piace e fare tutto quel che mi pare, solo per mettermi qui, in mostra come un fiore in un vaso di vetro, a eseguire ordini – la nostra ospite riluttante sbuffò e ci scoccò un'occhiata irosa. – In quello che faccio sono la migliore, per questo mi avete voluto. Solo che non potete battermi al mio gioco. Io ho vinto, e non me ne resterò qui ad avvizzire lentamente. Rivoglio la mia libertà.
Guardai Ekira, e lei mi restituì uno sguardo affranto. Non c'era modo di farle cambiare idea, il rifiuto che la nostra ospite nutriva nei confronti della Fortuna Maior, del suo equipaggio e soprattutto verso di noi non si era mai sopito, anzi, se possibile, era divampato in un fiammeggiante odio. Sapevamo entrambi che non potevamo permetterle di rivelare agli altri il funzionamento del cuore della nave, ciò che le permetteva di librarsi in volo. Se lo avessero saputo, avrebbero iniziato a dubitare, e se avessero dubitato, i loro sogni, la loro immaginazione, i voli pindarici delle loro menti si sarebbero indeboliti a tal punto da non essere più in grado di sostenerci in aria. Sarebbe stata la fine non solo per il nostro folle progetto, ma anche per tutti noi.
A quel punto, non restava che una sola cosa da fare. E tutti avrebbero ottenuto ciò che volevano.

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