lunedì 14 marzo 2022

Pessimi piani nella Terra del Vapore


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Foto di cottonbro da Pexels


Il piano era semplice, ma non del tutto privo di rischi.
Non avevo alcuna intenzione di essere trascinata da quattro creature volanti per i cieli di quel nuovo mondo, la Terra del Vapore, consapevole com'ero che a tre quarti di loro non avrei affidato la vita di un pesce rosso, figuriamoci la mia. Avevo già avuto fin troppa fiducia in loro quando mi avevano sollevato per raggiungere il portale, a pochi metri da terra, e solo perché sarebbe stato impossibile attraversarlo altrimenti: se anche avessi usato una scala per arrivare al portale dal lato della mia terra, dall'altro mi attendeva un dislivello altrettanto grande, e preferivo un atterraggio per quanto possibile morbido a uno in cui rischiavo le ossa. Perciò avevo affrontato in maniera stoica quel breve volo, sapendo che il nostro piano non ne prevedeva altri.
Danger e i suoi quattro amici avrebbero preso la via più breve, sorvolando la città e attirando così le guardie lontano da noi. Un po' avevo pietà dei poveretti che avrebbero dovuto dare la caccia a cinque gremlin scalmanati. Avevo provato sulla mia pelle che cosa significava, ed era un'esperienza che preferivo non ripetere.
Quando fossero stati abbastanza lontani, Talon e io saremmo usciti dal magazzino e avremmo attraversato a piedi la città. Nonostante il nervosismo che lo animava nel mescolarsi agli umani del suo mondo, a suo dire molto più cattivi di quelli del mio, Talon era l'unico che poteva guidarmi tra le vie cittadine. Aveva fatto abbastanza pratica nella terra da cui io venivo, e con addosso un mantello che gli copriva le ali, il cappuccio calato sulla testa e un paio di galosce senza suole a nascondere le zampe da rettile che aveva al posto dei piedi, poteva quasi passare inosservato. Io invece dovevo fare molta più attenzione, poiché la mia mantellina copriva a malapena una comune maglietta e i jeans e le scarpe da ginnastica che i gremlin avevano definito "abbigliamento insolito", e temevo di spiccare tra la folla come un arcobaleno a un raduno di emo.
– Sembra ci sia parecchia gente qui fuori – mormorai in tono nervoso a Talon mentre attendevamo. Le grida "gremlin, gremlin!", il sibilo dei fischietti e i passi concitati si stavano allontanando, ma avvertivo ancora un certo brusio fuori dal portone, e temevo che da un momento all'altro potesse entrare qualcuno. Di tanto in tanto sentivo lo scalpiccio degli zoccoli di un cavallo, uno sbuffo di vapore o un clangore metallico, ritmico. Non potevo fare a meno di chiedermi che cosa avrei trovato là fuori. Mi sentivo ansiosa, agitata ed emozionata. Ero ad appena un passo da un mondo completamente diverso dal mio.
A giudicare da quell'anonimo magazzino pieno di casse non lo si sarebbe indovinato, sempre che non si notasse che invece di essere illuminato da neon o da luci a incandescenza, era rischiarato a malapena da qualche lanterna a gas dalla forma antiquata.
– Sembra – replicò Talon, affaccendato a esaminare il contenuto delle casse. – Quando usciamo però, non prendere niente, non toccare niente e non parlare con nessuno. Un umano non parla la lingua dei gremlin, e se ti sentono...
Sorrisi a quelle raccomandazioni, così simili a quelle che gli avevo fatto io per la sua prima uscita, la visita a un supermercato del mio mondo. Annuii e gli assicurai che avrei seguito le regole.
Ben presto fu tempo di uscire.
Non si può descrivere la meraviglia che provai una volta che i miei occhi si abituarono alla luce del giorno. Il magazzino si trovava su una terrazza sopraelevata e la città si stendeva di fronte a noi. Ovunque, torri di rame e guglie d'ottone collegate da camminamenti si elevavano su cupole d'oro e d'argento formando un'intricata, fitta rete di cattedrali che si stagliavano contro un cielo terso. Non sapevo descrivere in altro modo il profilo frastagliato di quell'insolita città. Non badai troppo alla folla che ci sciamava accanto, nonostante la bizzarria degli abiti retrò che avrei definito normali solo in un ballo in maschera, blu scuro e marrone i colori principali accompagnati da dettagli in cuoio, gilet, cappelli a cilindro, bastoni da passeggio, occhialini da aviatore o cinture con attrezzi come quella che indossava Talon. Ma quando un improvviso sbuffo di vapore salì fischiando da oltre l'orlo della terrazza, giuro che andai molto vicino a un gridolino di spavento, prima di rendermi conto dallo sferragliare successivo che si trattava di un treno che procedeva lungo binari poco più in basso di noi. Altri veicoli si facevano largo lungo le strade, tra la folla vociante: oltre a carrozze dalle forme insolite trainate da cavalli, anche bizzarre moto, basse e allungate, una biga con un motore di ingranaggi a vista, e marchingegni tondeggianti o squadrati che alloggiavano due o più persone. Ebbi l'impressione che alcuni di loro, invece che su ruote, si muovessero sorretti da zampe meccaniche, come strani ragni robot.
Non ebbi il tempo di osservare altro: senza parlare, Talon mi prese per un braccio e mi condusse via. Mi lasciai guidare, entrambi a testa china per non incrociare lo sguardo dei passanti, con il cuore che mi batteva a mille, un po' per lo stupore e un po' per il timore di essere scoperta.
Non avevo idea di cosa mi avrebbero fatto quei gentiluomini e quelle gentildonne, se ci avessero presi. Probabilmente nulla, io non ero un gremlin, ma non volevo mettere nei guai Talon.
Filò tutto liscio finché non ci parve di essere seguiti. Talon me lo bisbigliò in un orecchio, cercammo strade laterali in cui svicolare ma erano occupate da carrozze o da strani veicoli che sbuffavano nuvole di vapore e ticchettavano come vecchie pendole; poi il battente di una massiccia porta di legno scuro si aprì, ne uscì una dama imbellettata con un parasole sottobraccio e noi ci infilammo dentro prima che si chiudesse.
Quando la porta socchiusa si allineò all'altra con un cigolio, un meccanismo scattò e uno stantuffo spinse una sbarra di metallo attraverso una serie di anelli sul legno. Fu inutile cercare di afferrarla e spingerla via: era inamovibile. Davanti a noi una porta chiusa, dietro un'altra chiusa nello stesso modo, e ai nostri fianchi due corte pareti. Lo spazio era davvero poco. Fortuna che non soffrivo di claustrofobia.
– E adesso, genio? – chiesi a Talon, ma non ebbi il tempo di ascoltare la sua risposta, né lui di esaminare e smontare i meccanismi, che con cigolii e scossoni soffitto e pavimento si mossero di pari passo verso l'alto.
– Oh! Un ascensore – intuii. Mi aggrappai a Talon, non essendoci alcuna maniglia o protezione tra noi e le pareti che ci sfilavano lentamente attorno. Quell'affare violava le più elementari norme di sicurezza.
Infine con uno sbuffo si arrestò, e l'unica porta che era apparsa sulla parete di fronte a noi si aprì.
Sbirciammo nel corridoio. Vuoto. Alla nostra sinistra una serie di porte, alla nostra destra alcune finestre mi offrivano un'incredibile vista dall'alto della città. Restai di nuovo incantata. Non c'era nessuno, perciò ci azzardammo ad avviarci lungo il corridoio, e la porta dell'ascensore si chiuse alle nostre spalle. Gettai un'occhiata in tralice a Talon. Gli artigli ai suoi piedi avevano lasciato graffi e strappi sulla moquette del corridoio.
– E adesso? – gli chiesi.
– Troviamo un'altra uscita? – azzardò lui. Non sembrava per nulla preoccupato. Avanzammo con cautela lungo il corridoio, quando una porta più avanti si aprì, e ne uscì una persona voltata di schiena, evidentemente ancora in conversazione con qualcuno all'interno della stanza. Talon aprì la porta più vicina, ignorando il cartellino appeso alla maniglia, e mi spinse dentro.
– Aspetta, c'è scritto "non distur..." – feci appena in tempo a dirgli, prima che anche lui entrasse e serrasse la porta. Le lettere sul cartellino erano strane, un po' diverse dalla grafia a cui ero abituata, ma nonostante il font particolare, la scritta in inglese era inequivocabile.
Un grido spezzato ci indusse a voltarci. Seduto a una scrivania, con un pennino che gocciolava inchiostro sul foglio, un giovanotto ci fissava a occhi sbarrati. Non saprei dire chi di noi fosse più sbigottito dall'intruso con cui si era ritrovato a condividere la stanza.
Talon, invece, avanzò di un passo e ammirò estasiato la parete zeppa di bozzetti e schemi di invenzioni che circondavano la scrivania del giovane. Lasciata ogni prudenza, proprio lui che mi aveva ammonito di non farmi notare, cacciò fuori una mano dalle unghie nere ad artiglio, li indicò e chiese: – Li hai fatti tu?
Ovviamente, in una lingua che il giovane non poteva comprendere. La lingua dei gremlin, così simile all'italiano del mio mondo.
– Gr... gr... gr... – balbettò il giovanotto. A quel punto, la situazione precipitò in fretta.
– Gremlin! – urlò il giovane con tutto il fiato che aveva in gola.
Sollevai le mani in segno di resa, e nel mio inglese scolastico cercai di rassicurarlo. – Friends! Friends!
Non fui per niente credibile, anche perché quando Talon lo vide allungare una mano verso un bastone, da buon gremlin combinaguai qual era, gli saltò addosso. E tanti saluti all'amicizia tra umani e gremlin.
Il ragazzo urlò ancora qualcosa che non capii, ma intuii che stesse chiamando delle guardie, e quando udii i passi concitati avvicinarsi alla porta, tirai su Talon e lo strattonai via dal giovanotto, che ancora mi fissava incredulo.
– Che facciamo, che facciamo... – Mi misi le mani nei capelli, in preda al panico.
Talon però aveva un piano. Un altro. Forse ce lo aveva fin dall'inizio.
Si liberò del mantello, si sgranchì le ali e aprì una finestra che dava su guglie aguzze e un mare di cupole. – Rachele, adesso dobbiamo proprio volare. O planare, almeno. O non cadere troppo velocemente. Se ci riesce.
Non suonava per niente rassicurante, ma eravamo a corto di alternative.

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