giovedì 17 marzo 2022

Un paio di braccia in più


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Foto di ROMAN ODINTSOV da Pexels


– Non capisco perché dobbiamo fare tanta strada per andare a trovare un fabbro – mi lamentai con il Guercio, mentre ci inerpicavamo su per un sentiero montano tanto stretto da costringerci a camminare in fila uno dietro l'altro. Avrei potuto indicare loro il miglior fabbro di Laeverth, quello che riforniva i cavalieri della regina, e invece no, Novedita ci aveva guidati in quel posto da capre e pastori, lontano dalle rotte commerciali, più a nord e più in alto di Escalona, tra vette aguzze e venti gelidi.
– Questo non è un fabbro, è il fabbro – replicò il Guercio, con voce arrochita e il tono di scherno. – Non sei uno dei Bastioni Rossi se non ti rifornisci da lui. Ah, ma tu non puoi capire, Senzaferro.
– Perché sono solo uno scudiero, o perché non posso toccare il vostro "prezioso" metallo?
Il Guercio si voltò a guardarmi con l'unico occhio sano. – Entrambi – sentenziò, prima di tornare a guardare avanti.
Il Bianco, dietro di me, mi pose una mano sulla spalla. – Vedrai che troveremo una soluzione – disse, in quel suo solito modo condiscendente, come a volermi consolare. – Puoi maneggiare una lancia, o un'alabarda. E indossare armature leggere, di cuoio. Oppure puoi imparare a tirare con l'arco da Sentinella.
Non gli risposi. Io un'arma ce l'avevo, ma non sapevo come loro avrebbero reagito, se avessi mostrato Ossasangue in azione. Ben presto fummo in vista di uno sparuto gruppo di casupole di pastori e boscaioli, poco più che capanne di legno col tetto di paglia, strette l'una all'altra. Poco distante, circondato da pinnacoli di pietra, c'era un edificio completamente diverso, una casa di mattoni viola, a pianta quadrata, con un tetto color ocra arrotondato sulla sommità, dal quale spuntavano tre comignoli fumanti. Già da fuori potevo udire le martellate acute riecheggiare sull'acciaio, due serie di colpi, come due cuori, che battevano a un ritmo differente: uno più lento, rilassato, e l'altro frenetico, instancabile e ossessivo. Il fabbro doveva avere un aiutante, pensai, quando nell'avvicinarmi alla soglia dietro il guercio mi parve di sentire anche un altro suono, uno stridore musicale, che variava di tono e formava una magnetica melodia di accompagnamento a quelle percussioni.
Novedita, il capo della nostra banda di mercenari, entrò senza bussare. Tale era la familiarità tra lui e il fabbro, che udii quest'ultimo accoglierlo con un: – Ah, finalmente, avevo proprio bisogno di un paio di braccia in più. Prestami uno dei tuoi scudieri, ho il bicchiere vuoto e la mia gola di destra è riarsa.
Novedita ridacchiò e fece un segno al più giovane dei ragazzini che si erano uniti ai Bastioni Rossi per imparare il mestiere. Lo Sbarbatello, questo il suo nome provvisorio, si fece avanti nella vasta sala che occupava quasi tutta la casa di mattoni viola, prese da una delle mani del fabbro un grosso calice e lo andò a riempire dalla caraffa ficcata in un catino di neve per tenerla fresca nonostante il caldo opprimente che emanava dalla fornace. Non appena lo scudiero gli liberò la mano dalla coppa, il fabbro ne approfittò per azionare un grosso mantice che ravvivò di colpo la fiamma crepitante, poi afferrò un paio di pinze, sollevò un crogiuolo colmo fino all'orlo di ribollente metallo liquido, che emanava bagliori rossi e dorati, e lo versò con attenzione in uno stampo. Nel frattempo, altre due mani non avevano mai smesso di rigirare sull'incudine e ribattere rapidamente una piastra di metallo per darle la curvatura desiderata, mentre con un'altra coppia assestava colpi lenti sul filo di una spada che tratteneva grazie a un grosso guanto, e altre mani ancora, più in alto delle altre, erano impegnate a suonare un violino. L'ultima mano infine gli tergeva a turno una delle tre fronti. Lo capii solo quando volse verso di noi il volto di mezzo, affiancato dagli altri due di profilo, e disse con una voce più profonda della prima che aveva parlato: – Uno pensa di averne a sufficienza, e invece... non si hanno mai abbastanza mani, vero? Ah, grazie – concluse, prendendo la coppa dalle mani dello Sbarbatello.
Il Bianco radunò gli scudieri e li accompagnò a fare un giro per mostrare loro le armi esposte sulle pareti e nelle rastrelliere, gli altri mercenari si affollarono dietro al fabbro, intervenendo a turno nella conversazione tra il loro capo e quella strana apparizione: la pelle di un brillante blu zaffiro, che rischiarata dalle fiamme pareva farsi viola; le molte braccia che si affaccendavano a temprare l'acciaio con sibili di vapore, riscaldarlo, ribatterlo e poi affilarlo su una mola che strappava stridori acuti alla lama, e azionare il mantice che esalava un pesante respiro sul cuore della fiamma; i tre volti, con sei occhi curiosi che di tanto in tanto sbirciavano nella mia direzione e tre bocche, tre voci diverse che si alternavano o si sovrapponevano, facevano del fabbro la più bizzarra creatura che avessi mai visto in tutti i regni, e che avrei mai veduto nella mia vita. E, da allora, di bizzarrie ne ho viste parecchie, ma mai nessuna come lui.
A differenza degli altri, io restai accanto alla porta. L'aria satura dell'odore acre dell'acciaio mi rendeva inquieta e mi dava un senso di nausea, come se qualcosa dentro di me riconoscesse il pericolo, la vicinanza dell'odiato metallo. Il ferro non era letale per le fate, ma il suo morso era doloroso, e lasciava ferite più durature di quelle inflitte con qualunque altro mezzo. E, a contatto con la mia pelle, scottava come se fosse stato incandescente, anche da freddo.
Fui grata quando Novedita mi concesse di uscire. Non mi piaceva quel posto, e non mi piaceva quel fabbro, che mi guardava come se avesse capito, anche se nessuno gli aveva detto niente in proposito.
Lo seppi per certo il mattino dopo, all'alba, quando mi raggiunse su una panca fuori dalla sua casa di mattoni viola. Gli altri ancora dormivano, ma io faticavo a riposare nell'aria satura di ferro.
– Non avevo mai visto una figlia delle nebbie tanto a nord – disse la sua bocca di mezzo, mentre il fabbro si sedeva alla mia destra. – Né una che si sia scelta un mestiere tanto insolito per qualcuno della sua stirpe.
Gli rivolsi un sorriso amaro. – Non ho abbastanza potere per essere una figlia delle nebbie, e qualcosa devo pur fare.
La sua bocca di mezzo fece un mugugno e una smorfia, poi quel volto assunse un'espressione pensosa. A proseguire ci pensò il volto di sinistra, quello dai tratti più delicati e dalla voce più suadente, quasi femminile: – Ma sei comunque legata a loro, possiedi le loro debolezze e le loro virtù.
Annuii, poi aggiunsi in fretta: – Non dirgli che cosa sono. Novedita non lo sa, e così gli altri. Mi caccerebbero dalla compagnia, se lo sapessero. O... qualcosa di peggio.
Il fabbro non si soffermò a chiedermi che cosa intendessi. Certo, l'utilità di qualcuno che non poteva morire qualunque ferita gli fosse stata inflitta doveva essergli balenata per la mente, ma non lo diede a vedere, e disse soltanto: – Che cosa sei?
La voce era quella beffarda del volto di destra. Le mani nel frattempo pettinavano i capelli neri, gesticolavano e accendevano del tabacco in una rozza pipa dal lungo bocchino, da cui però il fabbro non aspirò neppure una volta, limitandosi a lasciarla fumare tra le dita.
Io non risposi. Il mio primo impulso era stato quello di dire "una fata", eppure mi ero trattenuta, sapendo che non era vero. Le fate, quelle crudeli, odiose creature, mi avevano rifiutato.
Ero umana, da parte di mio padre, e come tale avevo sempre cercato di comportarmi.
Poi mi accorsi che la sua domanda aveva un altro senso.
– Chi sono – mi corressi.
– Già meglio – disse il volto di sinistra, ma quello di destra riprese: – Non fosse che tu non lo sai, chi sei.
Restammo di nuovo in silenzio. Io evitai di guardarlo, un po' perché le sue tante mani che agivano all'unisono sotto tre volti severi mi mettevano in soggezione, un po' perché non volevo rivelargli quanto fossi confusa. Il fabbro aveva ragione: era stupido, per una figlia delle fate, desiderare di intraprendere la via della guerra. Non era nella mia natura. Eppure possedevo un'arma, ed era un'arma più temibile di una comune spada d'acciaio. Non l'avevo più usata dopo l'incidente.
– Posso vederla? – chiese la voce profonda del volto di mezzo del fabbro, e se non lo avessi scorto indicare con una singola mano l'elsa di Ossasangue che spuntava dal fodero, che nel mio agitarmi sulla panca avevo inavvertitamente scoperto dai lembi della tunica che la proteggeva alla vista, avrei quasi potuto pensare che il fabbro mi avesse letto nel pensiero.
Scrollai le spalle. Avevo modellato l'osso e la carne che l'avvolgeva in modo che imitassero le venature e le sfumature rossicce del mogano, perciò dissi: – È solo una spadina di legno, da allenamento.
Il volto di destra rise, mentre quello di mezzo si girò verso di me e affermò, con la competenza di chi conosceva il suo mestiere. – Oh no, non lo è. Conosco il legno, e quello non è legno. E conosco i metalli, e quello non è nemmeno metallo, no, nemmeno uno senza ferro, nemmeno rame.
Sospirai, mi guardai attorno e infine, assicuratami che fossimo soli, afferrai l'elsa di Ossasangue e la feci strisciare lentamente fuori dalla sua custodia.
Nel vedere il pugnale fatto di ossa e muscoli, la lama curva che spuntava dalla morbida carne come il bordo affilato di una scapola, uno dei volti fece un fischio di ammirazione, e un altro disse: – Che schifo! – ma in tono giocoso, come se intendesse tutt'altro.
– È tagliente? – Chiese il volto di mezzo, avvicinando una mano.
Riparai in grembo il pugnale, per evitare di ferire la pelle blu del fabbro, prima di rispondere: – Molto. E...
Esitai prima di proseguire, ma di fronte a quei sei occhi indagatori dal taglio esotico non riuscii a tacergli quel dettaglio: – ...e fa più che ferire. Più la lama di Ossasangue resta nel corpo del mio avversario, più lui si indebolisce, e più io assorbo la sua forza. Anche se non la tengo in pugno, perché siamo collegate, siamo...
Sospirai e mi posai una mano sul torace. Sentivo ancora le costole spezzate che si riformavano, la carne sfilacciata che guariva lentamente dopo ogni passaggio della lama di un coltellino d'acciaio che ne aveva asportato un pezzetto, ogni volta che pensavo a come quell'arma era stata creata per me da mio nonno, un alchimista ansioso di studiare i limiti di un corpo di fata. Erano passati anni, ma non riuscivo a dimenticare.
Rinfoderai la lama di ossa e di carne alla risata del fabbro. Una risata triplice, seguita da un coro di voci allegre, dato che all'unisono tutte e tre le bocche dissero: – La scelta è tua, ma sai, ragazza... credo proprio che dovresti dire loro chi sei, e dimostrare il tuo valore, non trattenerti. In fondo, io non sarei diventato il fabbro più rinomato nelle terre dell'ovest se mi fossi legato sei braccia dietro la schiena e coperto due dei miei volti per apparire più accettabile agli occhi di un essere umano.
– ...chi sono? – chiesi, in tono dubbioso. Io stessa non avevo ancora risposto a quella domanda, ma ci pensò il fabbro a farlo per me, nell'alzarsi e tendermi due delle sue otto mani.
– Chi sei – disse il volto di sinistra, in tono gentile, e poi quello di centro concluse, profondo e sicuro: – Un guerriero.

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