lunedì 27 dicembre 2021

L'ultimo sogno prima di morire


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Alain Frechette da Pexels


Non immaginavo sarebbe stato così. Ne avevo sentito parlare, come tutti, nella colonia, ma ovviamente nessuno era mai tornato indietro a riferire quanto incredibilmente realistico fosse questo posto. Faccio molta fatica a convincermi che la banchina lungo cui sto passeggiando, con tutto il suo brusio di voci e di vita, e le strida dei gabbiani, e gli spruzzi della risacca con il loro perfetto odore salmastro in realtà non esistono in nessun luogo se non nella mia testa. Sento le pietre sconnesse del selciato sotto la suola di stivali che probabilmente nemmeno sto indossando, e lo scricchiolio del legno che si adatta a un peso che non possiedo quando mi avvio lungo un pontile, coperto a tratti da quello nettamente più forte degli enormi scafi che ondeggiano ormeggiati a pochi metri da me. Per un istante considero la folle idea di salire su una nave e fuggire, ma quel pensiero ha il solo effetto di riempirmi ancora di più di sconforto. Anche volendo, non potrei andare da nessuna parte. Il mio corpo non è realmente qui.
È al centro detentivo della colonia Marte 1, nella sala delle esecuzioni, una stanza di un bianco asettico che somiglia molto a quella di un ospedale. Sdraiato tra monitor di controllo segni vitali, elettrodi per la neurostimolazione e tubicini di flebo.
Ho la fortuna di vivere, per quel poco che ancora mi resta, in una società civile, che sebbene riconosca la pena capitale come necessaria - sono troppo scarse le risorse della colonia per mantenere un ergastolano, e la Terra non accetta il ritorno dei coloni la cui fedina penale non sia immacolata - ritiene altresì che il dolore di quest'ultimo viaggio sia evitabile, persino per qualcuno come me. Perciò mi hanno lasciato scegliere tra una varietà di scenari pre-programmati in cui attendere di spegnermi dolcemente, e io ho optato per la ricostruzione di un'antica città portuale della Terra, perché la vastità degli oceani è ciò che più mi manca del nostro pianeta madre, e perché mi sembrava un perfetto simbolo di questa mia partenza per l'ignoto.
Ma ora sono bloccata qui, ad ascoltare il ritmo del martello di un fabbro che non è mai esistito rintoccare metallico da una bottega che si affaccia sulla banchina, a respirare un falso vento salato che s'insinua tra capelli immaginari, a scaldarmi la pelle a un sole fatto soltanto di impulsi elettrici nel mio cervello. E mi chiedo, ogni volta che chiudo gli occhi e c'è quell'attimo di buio, se sarà quella definitiva in cui tutto cesserà di esistere, perfino quest'ultimo sogno frutto della pietà. Ma ogni volta riapro gli occhi e sono ancora qui, tra marinai sconosciuti che a stento mi degnano di un'occhiata, affaccendati come sono tra cataste di casse e barili, e rotoli di cime a bordo delle navi. All'inizio, avevo paura. Paura di sentire qualcosa nonostante le promesse, paura di non sentire niente, paura di sparire all'improvviso, paura del dopo, se un dopo esiste, paura di sentire lentamente svanire parti di me, perdere a poco a poco i ricordi come gli alberi si spogliano delle foglie in autunno.
Ma niente di tutto questo accade e passeggio in lungo e in largo per il porto, fino a conoscerne ogni angolo a memoria, fino a riconoscere ogni comparsa di questo scenario. Dopo averne ascoltato tanto a lungo i discorsi, origliando da estranea, ignorata da tutti quasi fossi già un fantasma nel mio stesso sogno, li saprei persino chiamare ciascuno col suo nome. Ormai la stanchezza ha preso il posto della paura, e mi sorprendo a pregare che gli addetti alla somministrazione delle sostanze letali si sbrighino a fare il loro lavoro. Non ne posso più di vagare in questo teatro in cui sono la sola spettatrice, a questo punto meglio la morte. Che però si fa attendere.
Mi fermo al termine del pontile e osservo le onde susseguirsi eternamente uguali dall'orizzonte immoto. Ricordo, quando dormivo, di aver vissuto in pochi istanti del tempo reale sogni lunghi una vita intera. E se il tempo fosse distorto in questo sogno artificiale come lo è nei sogni notturni? Alzo gli occhi al volo dei gabbiani, e poi ne seguo uno tuffarsi in picchiata tra le onde. Guardandolo, avverto il desiderio di tuffarmi anch'io, non per ricercare refrigerio, o per nuotare nell'oceano per gioco, no. Quello che voglio è affondare, annullarmi nell'acqua, smettere di respirare. E allora capisco, o almeno credo di capire.
E se non esistesse nessuna sostanza letale per fermare il cuore dei condannati a morte, se perfino quello fosse stato giudicato troppo incivile per la nostra società moderna, se in realtà la morte fosse causata dal condannato stesso? In un vecchio film, chissà qual era, dicevano che morendo nel sogno, saresti morto anche nella realtà.
E allora sia, mi dico. Avanzo, basta un ultimo passo qui alla fine del pontile, e mi lascio cadere in acqua. Il mare mi colpisce freddo, salato. È meno facile di quel che pensavo perché io so nuotare, non annaspo disperata, e abbandonandomi alle onde galleggio. E allora mi giro e spingo giù, bracciate lente e forti attraverso un verde denso e opaco, cerco di tenere la bocca aperta ma ancora l'acqua non vuol saperne di entrare nei polmoni, la inghiotto e si fa pesante nello stomaco, amara sulla lingua. Nuoto e nuoto ancora verso il basso, lottando contro la forza che vorrebbe respingermi, fino a perdere le forze, e allora mi abbandono e attendo, mentre le ultime boccate d'aria sfuggono alle mie labbra sigillate e risalgono gorgogliando sotto forma di bolle. Sono stanca. Voglio solo che finisca. E invece, qualcosa mi afferra per le braccia, e con gli ultimi sprazzi di lucidità comprendo che è un altro corpo che aderisce al mio, gambe che nuotano, braccia che mi circondano. Sento l'aria sul mio volto umido e anche se non voglio aspiro avidamente, tossisco, e respiro di nuovo, mentre altre braccia ci aiutano a risalire, altri volti guardano me, bisbigliano rivolgendomi domande, come se finalmente, solo adesso, avessi cominciato a esistere per loro. Guardo il mio salvatore, un bel ragazzo abbronzato e atletico, con linee intricate di un tatuaggio tribale che gli percorrono l'avambraccio destro e folte sopracciglia sopra gli occhi scuri.
– Tutto bene, signorina? – mi chiede, e io riesco solo ad annuire.
– Le dispiace se resto qui ad asciugarmi assieme a lei?
Di nuovo annuisco, e lo osservo sdraiarsi accanto a me mentre la folla si disperde. Pian piano prendo coraggio e iniziamo a parlare, a conoscerci davvero. E non mi importa più se questo è solo un sogno, se lui, come il calore del sole che mi asciuga la pelle, o il rintocco di una campana sul ponte di una nave, o il volo radente di un gabbiano, è solo nella mia testa, non è reale, perché io li sento, li sento come se fossero veri, e non mi importa più se tutto questo può finire da un momento all'altro, perché la vita può finire da un momento all'altro, qui dentro a un sogno o là fuori, nella colonia.
Non so quanto tempo ho ancora, o se fermarlo è compito mio o di qualcun altro, ma adesso sono in questo sogno, l'ultimo sogno, e intendo viverlo, perché ciò che sono, ciò che ho qui, è la sola cosa che mi resta.

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