giovedì 9 dicembre 2021

Un tuffo nel passato

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Foto di Tim Grundtner da Pexels


Adoro i luoghi abbandonati e derelitti.
Esplorare antiche dimore dai muri scrostati dal tempo, con i corridoi ingombri di mobili marciti dall'umidità e ragnatele, oppure scheletri di casermoni mai completati, irti di selve rugginose che spuntano dal grezzo pavimento di cemento armato, è una mia segreta passione. Alla non troppo veneranda età di vent'anni e qualcosa, complice il mio essere senza famiglia e senza un tetto sulla testa, ne avevo visitati parecchi di quei luoghi, e in alcuni ci avevo anche passato la notte. Sono stata in un vecchio faro, e in un mulino accanto a un ruscello di montagna ormai prosciugato. Sono stata in autobus dismessi, vagoni di treno giunti al loro capolinea finale e imbrattati di graffiti, sono stata perfino in una carcassa di aereo abbandonata in una zona remota. Ma nessuno di questi luoghi mi ha mai spaventato quanto la nave arenata.
L'avevo trovata una mattina, in una di quelle brutte spiagge che si allungano pigre, lontane dalle mete turistiche e dalle rotte di chiunque non fosse un gabbiano. Le strida di quei ladri voraci, guai a fargli sapere che avevi un boccone di pane nello zaino per colazione, e lo sciabordio delle onde agitate da un freddo vento autunnale erano l'unico sottofondo ai miei pensieri che affondavano nella sabbia assieme ai miei passi. Lo avevo notato da lontano, seppure fosse inclinato e mezzo sprofondato in quello che non era decisamente il suo elemento, e avvicinandomi scoprii con piacere lo scafo ricurvo di un galeone o di qualcosa di simile. Non m'importava che l'albero di mezzo fosse spezzato e gli altri completamente assenti, o che le assi fossero divelte in più punti, anzi, meglio così, perché almeno sapevo da dove entrare senza dovermi arrampicare fin sul ponte.
Dovevo esplorare quella meraviglia. Mi guardai attorno, per assicurarmi che non ci fosse nessuno che con le sue regole e regolette cercasse di trattenermi dall'assaporare quell'avventura. Accesi la mia fidata torcia e via, dentro dal più vicino pertugio.
La mia prima esplorazione, contrariamente alle mie aspettative, non fu poi così entusiasmante. La maggior parte dello scafo era invasa dalla sabbia, e quel che restava era un'ampia stiva completamente vuota: se c'era stato qualcosa, barili o altro, doveva essere stato portato via molto tempo fa. Quanto alle cabine, che probabilmente si trovavano oltre il piano inclinato sopra la mia testa, mi era impossibile raggiungerle da dentro la nave: l'unico moncherino di scale che pendeva da lassù si trovava dal lato dove il soffitto era più alto.
Lasciai a malincuore il relitto per recarmi alla più vicina cittadina, dove avrei potuto racimolare a sufficienza per un pasto e una lunga corda, da abbinare quest'ultima a un gancio che avevo raccattato nel corso delle mie esplorazioni per farne così un rampino utile a proseguire la mia avventura all'interno del galeone.
Era sera quando tornai sulla spiaggia, ed ero stanca, perciò mi rifugiai in quella vecchia stiva bucherellata che almeno offriva un po' di riparo a un vento sempre più intenso, foriero di tempesta, e mi addormentai sulle assi di legno.
La mattina dopo ebbi un risveglio inquieto. Il mare sembrava essersi fatto maledettamente vicino, quasi a lambire e leccare l'esterno della stiva, e il legno cigolava e gemeva sotto i colpi delle onde.
Non avevo previsto che la marea si alzasse tanto.
L'odore salmastro impregnava le assi, molto più intenso della sera prima, e tra le strida degli odiosi gabbiani, così vicini che pareva mi stessero volteggiando sopra la testa, udivo ogni tanto un clangore metallico, come di catene tirate o fatte scorrere, e l'eco dei passi, e molti, troppi rumori che non comprendevo, forse qualcosa come lenzuola sbattute e colpi di martello e chissà cos'altro. Ero nella terra di mezzo del dormiveglia e non me ne curai più di tanto, almeno finché non fui completamente svegliata dai rintocchi di una campanella e da un sobbalzo delle assi sotto la mia schiena.
Mi resi conto con orrore che il pavimento che avrebbe dovuto essere immobile ondeggiava, e che il mare, l'immenso mugghiante mare si stendeva al di là di un sottile strato di legno.
Non ero più sulla spiaggia, e non ero più in un relitto abbandonato.
La stiva era ancora ingombra, ma non di sabbia, bensì di barili e casse assicurate al loro posto da catene. Nelle prime ore sfruttai gli stretti spazi tra il carico per nascondermi dagli uomini che ogni tanto scendevano e alla luce di una lanterna prendevano qualcosa da un barile o esaminavano il contenuto di una cassa.
Non sapevo se erano fantasmi di un'altra epoca o se per qualche scherzo del destino ero finita davvero nel passato, ma quei brutti ceffi non mi piacevano e non volevo che mi scoprissero.
La mia fortuna non durò a lungo: mentre osservavo un tizio allampanato contare le mele sul fondo di un barile, questione preoccupante dato che ne avevo sottratta più di una per sfamarmi, non mi accorsi che il suo compare energumeno aveva fatto il giro e avvicinandosi da dietro mi afferrò per un braccio e mi portò allo scoperto.
Fine dei giochi, pensai, dato che entrambi portavano coltellacci ricurvi alla cintola.
Invece i due mi portarono dal capitano, che mi interrogò con un linguaggio antiquato per sapere chi fossi e come fossi riuscita a salire sulla sua nave e a passare inosservata per tutte le settimane di navigazione. Inutile spiegargli che mi trovavo a bordo da meno di un giorno: non mi avrebbe creduto. Il suo sopracciglio alzato quando gli diedi del lei per cercare di mantenere un tono rispettoso verso qualcuno che poteva disporre della mia vita, così come il suo disprezzo per il mio abbigliamento "da giovanotto più che da signora" mi imbarazzarono, ma non ci misi molto per adattare il mio eloquio al suo, senza esagerare per non dargli l'impressione che lo stessi scimmiottando.
Dovevo essermela cavata bene, poiché invece di mandarmi a fare un tuffo tra gli squali come capitava ai clandestini nelle storie marinare che avevo sentito dai senzatetto con cui avevo condiviso il pane, il capitano mi mise a pulire il ponte e a dare una mano per qualche altro lavoretto a bordo, così da pagarmi il passaggio fino al prossimo porto. Alcuni marinai però non erano convinti che quello fosse il modo migliore di pagarmi il viaggio, e ogni tanto qualcuno cercava di allungare le mani, ma si prendeva immancabilmente una bella batosta con il manico dello spazzolone, o un calcio tra le gambe o una gomitata sul naso.
Non era la prima volta che avevo dovuto difendermi: lo avevo imparato per strada.
In quegli spazi ridotti però, dove non potevo scappare altrove per passare al sicuro la notte, dormivo male e poco, sempre all'erta, timorosa di ogni passo che si avvicinava mentre stavo per scivolare in un sonno leggero.
Il peggio arrivò in una notte senza luna. Dopo molti tentativi infruttuosi di avvicinarmi singolarmente, di giorno o di notte, i più intraprendenti tra i miei ammiratori avevano infine deciso di unire le forze e dividersi il bottino. Riuscii a malapena a evitare che mi chiudessero in un angolo, ma quando sfuggii alle loro grinfie e chiamai aiuto, scoprii che i pochi amici che avevo sulla nave non erano poi così tanto amici come pensavo. Ero da sola contro il branco di bruti.
Uscii sul ponte nella speranza di farli desistere dall'aggredirmi sotto gli occhi della vedetta e del timoniere, ma invano. Avevano scelto bene quella notte, ogni singolo uomo sul ponte era uno dei loro, fin troppo desideroso di voltarsi dall'altra parte pur di ottenere il proprio turno una volta che i primi fossero stati soddisfatti.
Salii sulla murata, non avevo altro posto dove cercare rifugio che tra le sartie, conscia che anche lassù tra le corde e le vele quegli uomini di mare avrebbero potuto raggiungermi, certo, ma difficilmente mettere in atto i loro propositi. Prima di potermi arrampicare però una mano mi raggiunse, una forte spinta mi fece perdere l'equilibrio e caddi fuoribordo.
Mi mancò il fiato quando, invece di un tuffo tra onde agitate, la mia schiena fu percossa da un muro di sabbia. Alzai gli occhi: sopra di me il relitto del galeone giaceva inclinato nella sabbia, con l'albero spezzato proteso in maniera sinistra verso di me nel bagliore latteo di una luna quasi piena.
La stessa della notte in cui mi ero incautamente addormentata nella stiva di un vecchio vascello e avevo fatto un tuffo nel passato.
Non tornai là dentro, né quella notte, né il giorno dopo. Avevo esplorato a sufficienza ogni angolo di quella nave.
Abbandonai il relitto e il suo equipaggio perduto nel tempo senza più voltarmi indietro, e ancora adesso, al pensiero di quel mio impossibile viaggio e del pericolo che avevo corso, un lieve tremore mi scuote le membra e resto sveglia ad ascoltare i passi dei fantasmi che tornano a vivere nei miei sogni.

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