lunedì 11 dicembre 2017

Sfocature

(racconto ispirato dall'esercizio Immagini per scrivere. Il lancio del dado mi ha dato un 3, che corrisponde alla foto qui sotto.)

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quando c'era lei, il mondo attorno spariva.
Non che fosse bella. O almeno, non bella di quella bellezza eccezionale, da perfezione da film o da copertina di rivista patinata. Ma Keiko era... speciale.
Fin dalla prima volta che la vidi, mi resi conto di non poter distogliere lo sguardo. Era come se la luce stessa curvasse attorno a lei, riflessa dal suo abito bianco in un turbinio candido che cancellava tutto, le case, le strade, gli alberi, le altre persone.
Il suo sguardo diretto, il suo sorriso appena accennato, quasi timido, mi indussero a scambiarla per un'aspirante modella; e invece, l'agenzia l'aveva mandata a farmi da assistente.
Io non avevo bisogno di un'assistente, avevo bisogno di un soggetto che mi ispirasse. Lei poteva essere la mia musa, le dissi, ma Keiko fu categorica: nessuna foto. Io, che ero praticamente cresciuto con una macchina fotografica in mano, la ritenni un'imposizione assurda, ma accettai.
Finché Keiko avesse lavorato per me, non le avrei scattato una sola foto.
Così iniziò il nostro incauto sodalizio. Non durò molto, ma non per colpa sua. O almeno, questo era ciò che io pensavo.
Nel lavoro, lei era tutto ciò che il suo sorriso prometteva: modesta, riservata, insostituibile. Nonostante calamitasse lo sguardo di ogni collega o modella con cui mi trovavo a lavorare, sembrava non bearsi mai di quelle attenzioni, e rifiutava con garbo qualunque tentativo di coinvolgerla in un servizio fotografico. "No, grazie, mi dispiace ma non sono fotogenica" era ciò che ripeteva, e dietro lo scudo della timidezza seguitava a tener nota dei miei appuntamenti e a rispondere al mio cellulare mentre ero impegnato.
Ma se lei svolgeva un lavoro impeccabile, il mio continuava a peggiorare. Ero distratto, svogliato. Costringermi a distogliere lo sguardo da lei per concentrarmi sulle modelle mi infastidiva fin quasi al punto da diventare una tortura, e a fine giornata gli occhi mi facevano male. E una volta sviluppate le foto, mi accorgevo che molti di quegli scatti erano da buttare, rovinati da sfocature o sovraesposti o attraversati da lampi bianchi. Non potevo continuare così.
Stavo perdendo un cliente dopo l'altro e Keiko, che teneva la mia agenda, se ne accorse.
Tre mesi dopo il nostro primo incontro, mi disse che si licenziava. Aveva trovato un altro posto da assistente, uno in cui la fotografia non fosse prevista. Mi disse che sarebbe stato meglio per tutti e due.
Dal momento che non lavorava più per me, le chiesi di poterla fotografare. Una foto, una soltanto, prima che sparisse per sempre dalla mia vita.
Keiko era così, non guardava al passato, e non intendeva lasciarmi alcun modo di mettermi in contatto con lei. Ma quella foto me la concesse.
Così avrei capito perché non potevamo lavorare insieme, mi disse.
E lo capii, una volta sviluppata la foto.
Ripensandoci, non credo che Keiko ne avesse il controllo. Forse era qualcosa che le succedeva e basta. A occhio nudo, era un'impressione indefinibile che spingeva lo sguardo su di lei, non avendo altro attorno su cui fermarsi.
La foto invece lo mostrava chiaramente. Non avevo usato un filtro, ma ciò che ritraeva era solo Keiko, nitida, in primo piano. Tutto il resto era molto più che sfocato. Era annullato da un chiarore più intenso quanto più i dettagli dello sfondo si trovavano vicino a lei.
Passai tutta la notte a riprendere in mano ogni foto sfocata degli ultimi tre mesi e a ricordare le volte in cui Keiko si era avvicinata a me per riferirmi un messaggio, per ricordarmi un appuntamento o per portarmi un caffè. E a questo punto, penso di non doverti riferire che coincidevano ogni singola, dannata volta.

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