lunedì 18 settembre 2017

La rivincita del marinaio

(racconto ispirato dall'esercizio Sei un mito! con un imbarazzante epilogo alla vicenda di Circe narrata nell'Odissea)
 
Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.


Quando Circe si risvegliò una mattina da sogni proibiti e voluttuosi, si ritrovò trasformata in una maialina. Giaceva su un fianco, le quattro zampette allungate verso la sala in cui aveva pasteggiato con Ulisse e i suoi fino a tarda notte. Le fiaccole erano spente e la luce tenue che ardeva intorno era quella di Aurora dalle dita rosate. Sulla tavola avanzi di cacio, miele e vino speziato spandevano i loro aromi invitanti. Mancavano i marinai. Circe girò gli occhietti porcini a cercarli – era quasi impossibile torcere il collo in quella posizione – ma non li vide da nessuna parte e sotto alcuna spoglia. “Che cosa è successo?”, pensò. Non era un sogno, era un incubo.
Faticò a rimettersi in piedi. Le zampe tozze annaspavano sul lucido pavimento di marmo del suo palazzo. Per quanto ci provasse, contorcendosi e spingendo, i muscoli non sembravano adatti a sollevare il suo corpo grassoccio.
“Non avevo mai immaginato che fosse così difficile”, pensò quando, con un colpo di reni, riuscì prima a sedersi sulle natiche e poi a stare ritta sulle quattro zampe. “Ecco, ora ci sono.”
Zampettò un po’ in giro per la sala, sbocconcellando i deliziosi pezzetti di cacio caduti dalla tavola.
“Che fame!” pensò con un sospiro. Provava un senso di vuoto e il suo ventre pingue non la smetteva di brontolare.
“Oh Zeus, che mestiere faticoso mi sono scelta! Fa’ la maga diceva mio padre, hai talento per la metamorfosi. Sempre tessere e cantare, cantare e tessere tutto il giorno per attirare i marinai che approdano alla mia isola. Sembro forse brutta come una sirena?”
Circe passò davanti allo specchio d’argento brunito e si soffermò a rimirarsi. Il suo corpo era gonfio e roseo, retto da zampe troppo corte. Il viso era diventato un lungo muso con occhietti cisposi, un naso ridicolmente grosso e piatto e due straccetti al posto delle orecchie. Ma quello che le pesava di più era la scomparsa della sua bella chioma ricciuta. La sua nuova codina arricciolata non era un degno sostituto.
“Resto comunque più bella di una sirena”, si disse, sollevando il muso con fare altezzoso. Zampettò via dallo specchio e s’imbatté nel telaio al quale era solita lavorare. L’opera era compiuta a metà: Ulisse, in piedi e senza testa, versava una libagione di vino per terra in un gesto d’augurio, acclamato dai suoi marinai. Circe guardò le zampe davanti, che posavano su due minuscole dita.
“Povera me, come farò a finirlo? Nemmeno la mia voce è più quella di ieri. Così conciata non posso attirare nessuno: mi converrà cambiare mestiere.”
Per la vergogna la scrofa Circe corse a nascondersi sotto al tavolo. E lì, tra le gambe del trono intarsiato d’argento che era stato il posto d’onore di Ulisse, trovò il vaso delle sue erbe magiche. Le bastò un’occhiata e un’annusata per capire cos’era accaduto.
“Mi ha giocato! Mi ha dato un assaggio della mia medicina! Oh, dannato… e io che gli ho persino augurato buon viaggio dopo averlo messo in guardia dai pericoli che avrebbe incontrato per mare!”
Circe scivolò a terra e appoggiò il muso sulle zampe anteriori. Le era rimasta un’unica speranza. “Calliope, ti prego, musa dei poeti: fa’ che almeno questa parte della storia non venga tramandata!”

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