lunedì 17 luglio 2023

Anche questa è arte


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Francesco Ungaro da Pexels


Dopo quello che era successo con il ragazzo di Angela, avevo bisogno di allontanarmi dalla casa di zia Alice per un po'. Anche se trovavo assurdo che Angela mi incolpasse per qualcosa su cui non avevo il controllo, e che infastidiva me per prima, non serviva essere una telepate per capire la necessità di non starle tra i piedi in quel momento. Lasciale sbollire la rabbia, mi dicevo, le passerà e poi sarete amiche come prima. Che ingenua.
Avevo sottovalutato la capacità di serbare rancore di una ragazza ferita.
Ma all'epoca ancora pensavo che il mio allontanamento fosse una situazione temporanea.
Chiamavo zia Alice una o due volte la settimana da una cabina telefonica per farle sapere che stavo bene. Il resto del tempo lo passavo a fare quello che sapevo fare meglio: vendere la mia arte.
Non è affatto difficile procurarsi dei clienti quando puoi leggere la mente di chiunque incontri. Qualcuno lo chiamerebbe barare; io lo chiamavo "velocizzare i tempi". Esponevo i miei disegni in qualche piazza di una località turistica e se qualcuno fermandosi a sbirciare pensava a una parete bianca da dipingere, o a un quadro che gli sarebbe piaciuto avere, io ero già pronta a entrare casualmente in argomento, chiedergli qualche dettaglio e fare uno schizzo dell'immagine che il potenziale cliente aveva in testa, esattamente com'era o anche meglio di come lo immaginava.
Il tutto con il cavalletto sistemato in modo che il mio interlocutore non potesse vedere che era la mia mano, passando, a imprimere sulla carta i tratti del disegno, e non la matita che agitavo invano.
Avevo concluso ottimi affari in questo modo, e reso felici parecchie persone con la mia capacità apparentemente magica di indovinare i loro desideri. Donne, soprattutto, perché buona parte degli uomini s'imbambolavano a guardare me e non s'accorgevano nemmeno dei miei disegni, e allora dovevo nascondermi dietro un pannello decorato che tenevo a portata di mano per quell'evenienza, e attendere qualche istante che si svegliassero e se ne andassero prima di lasciare il mio nascondiglio.
Ho già detto quanto mi infastidisce questa parte del dono del mio Shanekth, vero?
Non restavo mai troppo tempo nello stesso luogo, e per un buon motivo. Più lavori eseguivo nella stessa zona, e più la mia fama cresceva, forte di un passaparola che era l'equivalente dei moderni social network, ma con il limite delle distanze geografiche. E dato che non volevo attirare troppo l'attenzione sulle mie capacità miracolose, quando cominciavo a essere richiesta, sparivo.
Girai un po' tutta Italia quell'estate, ma il periodo e il lavoro che ricordo con più piacere fu quello alla sala giochi. Quei rumorosi, caotici e baluginanti luoghi di ritrovo per ragazzini e giovanotti stavano spuntando come funghi in ogni località balneare, e di tanto in tanto mi ero rifugiata in uno di essi per sfuggire agli sguardi degli uomini che affascinavo involontariamente alla prima occhiata.
In una sala giochi, ero sicura che non sarebbe accaduto. La maggior parte parte di chi la frequentava era troppo giovane per cadere vittima del mio potere, e quelli che invece erano già diventati adolescenti preda degli ormoni, in un luogo del genere non staccavano gli occhi dagli schermi nemmeno al passaggio di una bella ragazza.
Lì ero sicura di essere al sicuro.
Tanto di più al Pianeta del Gioco, che aveva finito per essere gestito, più che dal proprietario sulla carta, da sua moglie e dall'arcigna suocera. Quest'ultima disprezzava di tutto cuore le macchinette elettroniche che la popolavano, ma non avrebbe mai rinunciato ai guadagni facili che i gettoni portavano in cassa ogni giorno.
Era stata lei l'ostacolo principale da superare quando sua figlia mi aveva già mezzo ingaggiato per sistemare una parete vandalizzata dai graffiti. Avevo proposto un mosaico che richiamasse le creature e i paesaggi di pixel che lampeggiavano sugli schermi, e la donna più giovane ne era stata entusiasta, ma quella anziana aveva ribattuto: – A che ci serve un disegno sulla parete? Non è la parete che questi perditempo devono fissare tutto il giorno per portarci soldi.
Sarebbe stata dura convincerla se non avessi avuto un accesso diretto a ogni suo pensiero.
Per fortuna li udivo tanto chiaramente quanto il tintinnio dei gettoni infilati nelle macchinette alle mie spalle, le musichette ritmate e artificiali e le imprecazioni dei ragazzini che perdevano per l'ennesima volta.
Non sarebbe stato necessario chiudere la sala giochi per quella ristrutturazione, le dissi. Anzi, se ne poteva fare un evento che avrebbe attirato più clienti, con tanto di inaugurazione annunciata per la fine dei lavori. Non mi piaceva mettermi in mostra in quel modo, ma era l'unico che potesse soddisfare la sua mente avida, e inoltre ero certa che dopo l'entusiasmo iniziale la mia presenza sarebbe diventata una routine non più degna di nota. E per gli adolescenti che di tanto in tanto restavano imbambolati a guardarmi, trovai un alleato in Federico, il figlio del proprietario.
Non lo aveva mai ammesso con nessuno, nemmeno con sé stesso, ma Federico era attratto dagli uomini ed era per questo che su di lui il mio dono non aveva effetto. Fu semplice diventare amici, e convincerlo a portare altrove i "cretini che sembravano non aver mai visto una ragazza", come li chiamava lui, che con un braccio sulle loro spalle e un sottile segreto piacere li accompagnava in un angolo della sala da cui non potevano vedermi e in cui avrebbero speso fino all'ultimo gettone prima di tornare alle casse per cambiare altre monete.
Con Federico, nelle mie ore libere dal lavoro, giocavo ai videogame e chiacchieravo. Lui si stupì nello scoprire che i videogiochi mi interessavano, e che ero molto più brava dei ragazzi che frequentavano la sala giochi.
– Una ragazza che gioca ai videogame? E poi, pensavo fossi un'artista.
– Be', anche questa è arte – ribattei accennando allo schermo, mentre manovravo la leva del joystick e premevo freneticamente i pulsanti, forte dei miei riflessi alieni.
Federico scoppiò a ridere.
– Non hai mai visto un quadro impressionista da vicino – gli dissi. – O anche uno puntinista.
– No, mai. Dipingevano Pacman, i puntinisti?
Fu il mio turno di scoppiare a ridere. Non leggevo quasi mai la sua mente, non ne avevo bisogno, perciò le sue battute mi sorprendevano sempre. – No, ma credimi se ti dico che siamo solo all'inizio. Questa è una nuova forma d'arte, e un giorno il mondo lo capirà.
E no, non avevo viaggiato in avanti nel tempo, quella capacità non è compresa tra i doni del mio Shanekth, ma non serviva aver visto il futuro per poter fare quel pronostico. Ma Federico non mi credeva, non come mi aveva creduto rapidamente quando ci eravamo presentati e mi aveva chiesto: – Wen'Ilian? Che razza di cognome è?
– È orientale – gli avevo detto, e a volte dovevo essere un po' più specifica per supportare la mia menzogna, e dare dettagli come "dalla regione nord ovest della Cina", o "dall'isola più a sud delle Filippine", e funzionava, prima che tutti avessero in mano uno smartphone, ma con Federico non fu necessario. D'altra parte, nessuno avrebbe mai pensato che sul Pianeta del Gioco, tra mostriciattoli alieni invasori e minuscole astronavi stilizzate, era sbarcata una vera, autentica aliena.
Persino la scelta del mosaico era stata lungimirante, poiché mi consentiva di compiere la mia magia in piena vista. Di solito chiedevo spazio e solitudine ai miei clienti mentre "dipingevo", per poi farmi trovare con i pennelli sporchi e il lavoro finito dopo un ragionevole lasso di tempo, quando in realtà avevo fatto tutto già la prima ora, alterando con le mie mani la tinta della vernice bianca già stesa. Lì, invece, mi portai un unico sacco di tessere, con uno strato di quadratini colorati mischiati alla rinfusa in superficie, e il resto del sacco pieno di frammenti bianchi. Mentre lavoravo ho controllato, e anche se qualcuno lo notava, nessuno ha mai capito come pescassi sempre il colore che mi serviva, senza bisogno di guardare. E, soprattutto, come ci riuscissi nella penombra colorata dagli schermi dei videogiochi e dai neon intermittenti.
Solo l'ultimo giorno, a lavoro completato, nello spostare con Federico il sacco con le tessere rimaste prima di sparire per sempre dalla sua vita, il fondo si ruppe e tutte le tessere bianche piovvero sul pavimento e allora avvertii un vociare fortissimo di confusione e sospetto e incredulità nella sua mente.
Forse non avrei dovuto farlo, ma volevo dargli una risposta. Raccolsi una tessera bianca, la tenni nella mano e poi gliela porsi, rossa. Mi posi l'indice della sinistra sulle labbra.
– Sarà il nostro segreto – gli dissi. Ce n'era un altro, ma non glielo potevo rivelare, e probabilmente Federico lo avrebbe scoperto solo molti anni più tardi, con l'età e l'esperienza, e un mondo un po' più libero.
Non ne facemmo parola mentre raccoglievamo le tessere per metterle in un altro sacco, ma Federico sbirciava di tanto in tanto quello che da quel momento in poi, nella sua mente, avrebbe definito "il mosaico magico", e mi sorrideva contento come un bambino che abbia ricevuto il suo primo gettone.

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