lunedì 31 luglio 2023

Troppo realistico


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Vanessa Loring da Pexels


Quando Sergio mi aveva parlato di un gioco di ruolo "così realistico da far impallidire qualunque altro", in un primo momento non gli avevo creduto. Pensavo che esagerasse, anche perché quando gli chiedevo qualche dettaglio, lui restava nel vago. Parlava di sfide, e di combattimenti uno contro uno, di immersione totale e di poche semplici regole.
Mi ripeté più volte che dovevo essere davvero interessata, se volevo che lui mi dicesse di più. E che non dovevo ripetere a nessuno quello che lui mi stava rivelando, perché il gioco di cui parlava era davvero esclusivo e segreto. Pensavo che definirlo tale fosse solo un'operazione di marketing, ma su di me aveva funzionato: la mia curiosità era stata stuzzicata a dovere, e ormai volevo assolutamente sapere che cosa c'era dietro.
Insistetti finché Sergio non mi disse che voleva farmi conoscere qualcuno che lavorava in un certo posto, e dalla vaghezza delle sue parole capii che quell'incontro aveva a che fare con il gioco.
Feci finta di non saperlo, però, quando il tizio in giacca e cravatta che ci accolse in un ufficio qualunque si presentò come un impiegato di una società di somministrazione di sondaggi, e come prima cosa mi fece compilare una montagna moduli contenenti di test attitudinali e indagini riguardanti le mie abitudini. Alcune delle domande, mescolate ad altre più banali sulle marche di detersivo e sulle mete preferite per le vacanze, riguardavano i videogiochi e i giochi di ruolo: se li avevo mai provati, di che tipo, che personaggio preferivo interpretare e che genere di avventura mi attirava di più. Questo mi fece capire che, nonostante la facciata apparisse quella di una banale società di indagini di mercato come tante altre, io ero nel posto giusto. Mi rassicurò, e sulle prime non feci caso alle domande più inquietanti, quelle che chiedevano se ero spaventata alla vista del sangue e quanto ero in grado di sopportare il dolore. Pensavo fossero lì solo per confondere le acque, come riempitivo.
Poi fu la volta dei moduli di riservatezza. Il tizio elegante dietro la scrivania mi costrinse a leggerli prima di firmarli, mi chiese di ripetere quello che avevo capito e mi sottopose persino a un test con la macchina della verità. Non sto a ripetere tutta la procedura che dovetti seguire prima che si decidesse a spiegarmi qualcosa di questo fantomatico gioco, ma quello che compresi dai moduli di riservatezza era che impiegavano una tecnologia innovativa, e che erano parecchio preoccupati che la loro invenzione potesse essere rubata e replicata dalla concorrenza.
Pensai, allora, che si trattasse di un gioco che si svolgeva nella realtà virtuale, magari con un ambiente più dettagliato e realistico rispetto ad altri, ma di certo nulla di paragonabile a quello che si vede nei film di fantascienza. Mi sbagliavo.
Una volta terminato con tutta la procedura relativa alla segretezza, il tizio in giacca e cravatta si alzò dalla scrivania e scortò me e Sergio, che si era impegnato a farmi da garante e mentore per il mio periodo di prova, oltre un labirinto di uffici in cui la gente faceva solo finta di lavorare, e al di là di una porta che si apriva su un banale sgabuzzino, la cui parete di fondo si aprì una volta che ci fummo chiusi dentro.
Eravamo nella zona segreta di quello che il nostro accompagnatore definì checkpoint. A questo punto, lungo la strada verso il suo vero ufficio, il tizio iniziò a parlarmi del gioco. Come lo avevano chiamato, come si svolgeva, come si calcolavano i punti e come potevo usarli per acquistare miglioramenti per il mio personaggio. Alcuni dei termini che usava, come quado parlava del campo di distorsione, mi lasciarono perplessa, ma per il momento lasciai che parlasse senza fare domande, nemmeno quando, pieno di orgoglio, parlava di questo come di un gioco che davvero poteva essere fatto dovunque e in qualunque momento, e che chiunque avrebbe potuto essere il mio avversario.
Quando arrivai nel suo ufficio, in base alle informazioni che avevo fornito in precedenza con i questionari, lui e Sergio mi aiutarono nella creazione del mio personaggio, scegliendo nome, armi, vestiario e accessori. Nessuna opzione sull'aspetto che doveva avere, né sulle abilità o sulle statistiche che ogni buon giocatore di ruolo si sarebbe atteso di dover compilare alla creazione del personaggio.
Mi dissero, anzi, che dovevo partire da qualcosa che io sapevo già fare.
Avevo fatto danza, da bambina. Parecchi anni, prima di abbandonare quella strada.
Fu così che nacque Shariza, la danzatrice di spade.
Mi avevano proposto di creare il personaggio di un mago, dato che io non avevo alle spalle un corso di scherma medievale come quello che Sergio aveva fatto per poter partecipare alle rievocazioni storiche in veste di cavaliere, ma io non gioco mai un mago. Starmene al sicuro nelle retrovie a lanciare incantesimi e perdermi tutta l'azione, con la beffa di essere morta al primo colpo quando l'azione si spostava dalle mie parti? No, grazie.
Il tizio si assicurò comunque di darmi l'indirizzo di una palestra convenzionata dove avrei potuto seguire un ciclo di lezioni e fare pratica, anche se io non ne vedevo la necessità, per combattere in un gioco. Anche qui, mi sbagliavo.
A quel punto mi fornirono l'aggeggio tecnologico, simile a un videogioco portatile, programmato con il mio personaggio. Rimasi un po' delusa quando lo vidi: non sembrava poi questa grande novità. Niente visori per la realtà virtuale, niente occhialini per la realtà aumentata, niente di ipertecnologico e innovativo. Un banale videogioco portatile, con tasti e un piccolo schermo.
Il tizio in giacca e cravatta mi ripeté ancora una volta che dovevo averne cura, non parlarne a nessuno di esterno al gioco, e che in caso di smarrimento o furto avrei dovuto denunciare immediatamente la perdita, e che se fosse stato dimostrato che tale evento si era verificato per una mia negligenza, sarei stata estromessa per sempre dal gioco.
Poi mi disse che avremmo fatto una prova lì in sede, per vedere come mi sentivo nei panni del mio personaggio e se avevo qualche cambiamento da fare, e passò a elencarmi una serie di effetti collaterali, che includevano nausea, disorientamento e vertigini, che potevano capitare le prime volte che attivavo questo fantomatico campo di distorsione, ma che con il tempo e con l'abitudine si sarebbero attenuati fino a sparire.
Mi condussero in una stanza vuota, dove mi lasciarono da sola mentre Sergio e il tizio in giacca e cravatta si sistemarono nella stanza attigua assieme a un altro tizio che chiamavano "l'operatore", e che mi dava istruzioni parlando in un microfono collegato a un interfono. Potevo vederli, tutti e tre, in un riquadro di finestra rettangolare.
– ...il campo di distorsione del tuo Simpler si collegherà al campo di distorsione ambientale che verrà proiettato in entrambe le sale, così potremo vederti senza essere direttamente nel tuo campo di distorsione – ripeté meccanicamente in tono annoiato la voce dell'operatore. – Aggancia il Simpler alla cintura o a una tasca, dovunque ti consenta di tenere le mani libere, e quando sei pronta premi il pulsante start. Tieni le mani libere, e magari con le dita strette un po' verso il palmo, sì, così – disse l'operatore quando gli mostrai le mani per capire se lo stavo facendo bene. – Quando sei pronta.
Non vedevo alcun motivo per attendere. Non mi aspettavo che accadesse granché nel seguire le sue istruzioni, e invece accadde di tutto. D'improvviso non mi trovavo più in una stanza vuota, ma in una strada affollata, di notte, tra un viavai di gente che mi ignorava come se non esistessi e una confusione di neon variopinti e insegne pubblicitarie che non riuscivo a leggere, perché le scritte erano quasi tutte composte da ideogrammi.
Qualcosa di pensante mi sfuggì dalle mani e cadde a terra con un clangore metallico, e nel guardare giù scorsi l'esatto tipo di spade che avevo scelto per Shariza, e ancora peggio, i miei vestiti erano stati sostituiti da quelli che avrebbe dovuto indossare il mio personaggio.
Mi sfuggì un'imprecazione.
Dall'interfono, rimasto aperto, mi giunsero le voci del tizio in giacca e cravatta e dell'operatore, e la risata sguaiata di Sergio.
– Shinjuku? Di nuovo? Ti avevo detto di caricare Milano!
– Scusa, capo. Ma tanto non fa differenza, no? È solo una prova.
Alzai gli occhi e li vidi dentro una vetrina. Dunque non mi ero mai mossa dalla stanza vuota, e quelli che vedevo erano solo ologrammi. Ologrammi estremamente realistici.
– Chiedo scusa per l'inconveniente, volevo calarti in una situazione di gioco realistica – mi disse il tizio in giacca e cravatta attraverso l'interfono. Non fosse stata in una lingua diversa, avrei confuso la sua voce con il vociare della folla olografica, o con gli annunci e la musica che provenivano dai negozi o dai veicoli che passavano lungo la strada.
– Naturalmente il campo ambientale non ci sarà quando attiverai solo il tuo Simpler e il tuo sfidante il suo, verranno caricate solo le caratteristiche dei vostri personaggi – mi disse ancora. – Raccogli le spade. Prova a vedere se riesci a maneggiarle. E vedi di non lasciarle cadere quando giochi.
Alle ultime parole, Sergio rise ancora più forte. Mi chinai e toccai con un dito le else. Sembravano reali. Davvero reali.
Raccolsi una delle spade. Ne sentii il peso e percepii sotto le dita le pieghe del cuoio che ricopriva l'impugnatura. Osservai la lama e mi chiesi se fosse altrettanto realistica. Dovevo sapere, perciò passai un dito sul filo e subito lo tirai indietro con un gemito. Mi usciva sangue, e il dolore era reale.
– Attenzione, è affilata – mi avvertì con una cantilena monotona l'operatore, troppo tardi.
Sembrava così reale. Troppo reale. Per un attimo, uno soltanto, pensai di tirarmi indietro. Fu quando mi resi conto che avrei dovuto combattere davvero con quelle spade, ferire o addirittura uccidere il mio avversario, ed evitare che lui o lei lo facesse a me. Anche se l'uomo in giacca e cravatta mi aveva spiegato che era solo un gioco, che non si moriva davvero in quelle sfide e che una volta fuori dalla distorsione gli effetti residui erano minimi, non era facile abituarsi al pensiero che il confine tra il gioco e la realtà fosse così sottile.
Ecco il perché di tutti quei test psicologici. Dovevano assicurarsi che fossi una persona equilibrata prima di mettermi in mano una tecnologia del genere. Se ero lì, voleva dire che avevo superato tutti i loro test. Potevo almeno provare e vedere come andava, e avevo Sergio che mi avrebbe insegnato tutto quello che dovevo sapere per migliorare le mie probabilità di vittoria.
Lo credevo, ma Sergio non si rivelò l'amico che pensavo che fosse.

Nessun commento:

Posta un commento