sabato 29 luglio 2023

Moina

Moina [mo-ì-na] s.f. Azione, comportamento, frase affettuosa; in particolare, gesto affettato e leziosamente gentile fatto in segno di affetto o per blandire e commuovere qualcuno, allo scopo di ottenere ciò che si desidera; smanceria.

Etimologia: etimo incerto, forse dal francese mine, "cera" o "aspetto del volto, gesto" attraverso la forma dialettale moigne, che a sua volta si ricollega alla parola celto bretone min, "muso"; secondo altri proviene dal latino volgare movina, derivato di movere, "muovere"; oppure si tratta semplicemente di una voce onomatopeica che assomiglia a un miagolio.



Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto Vlada Karpovich da Pexels


Il mostro sotto al Tabarro Nero non si perdeva in moine, mai.
Lo capii fin dalle prime notti nella mia nuova famiglia, se tale poteva essere chiamata. Gli altri bambini cattivi che aveva preso prima di me si erano aspettati che io piangessi, che mi lamentassi o che tentassi di scappare, ma per me quello non fu un gran cambiamento.
Mia madre, nel tentativo di fare di me una bambina buona, era stata anche più severa.
Nessa era stata gentile con me, ma Nessa non c'era più. Ne ero sicura perché Nessa era stata troppo buona per il mostro sotto al Tabarro Nero, e così lui l'aveva usata per placare la mia prima sete e poi l'aveva gettata via.
Ma la sete era tornata. Tornava sempre, per questo andavamo a caccia.
Le dimore isolate erano le migliori, perché lì non dovevamo fare piano, in silenzio, e nessuno sarebbe arrivato. Gli abitanti di quelle dimore, inoltre, non pensavano mai che potevamo essere il problema di qualcun altro. Il mostro sotto al Tabarro Nero si era circondato di bambini, perché i bambini non facevano paura a nessuno, per i bambini le porte delle case si aprivano e venivano invitati a entrare.
Agli adulti umani, anzi, piaceva che fossimo così educati da aspettare di essere invitati prima di varcare la soglia, e non si facevano domande, non si insospettivano per il nostro pallore o per le nostre occhiate bramose. Non finché non posavamo le nostre piccole mani fredde, e i nostri denti, su di loro.
Alcuni dei bambini cattivi che il mostro sotto al Tabarro Nero aveva preso dopo di me, e anche alcuni dei più vecchi, resistevano ostinatamente alla sete pur di ricevere da un estraneo l'affetto che non potevano avere dai propri compagni o da colui che ci aveva presi. Accoglievano con gioia ogni smanceria e ogni moina che quei corpi caldi potevano offrire, fosse stata una carezza, una parola gentile o addirittura un abbraccio.
Io li compativo, e se ero con loro, intervenivo presto per porre fine a quell'inganno che non ci avrebbe restituito la vita.

Nessun commento:

Posta un commento