lunedì 14 novembre 2016

Sentirsi

(titolo e incipit in corsivo di Giusi Marchetta)


      La sua camicia è una macchia bianca sul letto. Lei la ignora: infila nel cassetto la biancheria pulita, mette la borsa nuova sul ripiano più alto dell’armadio, apre la finestra e cambia aria alla stanza. Va a sedersi davanti allo specchio. E’ bella, oggi; sembra quasi che il trucco di ieri sera le sia rimasto addosso. Ora può girarsi, raggiungere il letto. Prima sfiora il colletto e accarezza le maniche, poi se la preme sul naso, sulla bocca. Sorride: che stupida.

      Va all’armadio e cerca una stampella libera. Si sforza di non guardare il telefono anche se è lì, sul comodino.


      L’attesa è il momento più dolce.


      Non c’è fretta: è domenica, ha tutto il tempo di prepararsi. Con cura infila la camicia nella stampella, la ripone nell’armadio e la guarda un’ultima volta, lì tra le sue, prima di chiudere l’anta. Le sembra sia al suo posto.

      Va alla finestra. Nell’aria le voci del mercato, i profumi. Chiude gli occhi per un momento. Ascolta.

      Nella stanza, il silenzio. Fuori, la vita.

      Stare in casa, da sola, è impossibile. Riapre gli occhi e prende la borsa, l’altra, vi infila il telefono ed esce. Subito il mondo la circonda: voci, passi, odori, colori. Lei cammina senza fretta, gustando ogni cosa. Passa davanti alle bancarelle, davanti alle vetrine. La sua immagine riflessa le sorride. Ha sempre il sorriso sulle labbra quando pensa a lui. Il telefono è una farfalla nella sua borsa, lieve e senza voce. Impossibile non pensarci, per quanto si sforzi.

      Il profumo di pane e caffè riempie la via. È così buono e invitante, che lei sceglie di lasciarsi rapire. Nel bar il vociare è ancora più intenso. Per gioco, ascolta e si lascia guidare da frammenti di conversazione. Frasi di amici, di famiglie o di innamorati. Frasi che scrivono la storia di una vita o che si dimenticano appena fuori dal bar.

      Si avvicina al bancone e ordina un caffè. Lo beve amaro. Il gusto è forte, corroborante. La prima volta è stato per sfida; ora, da quando c’è lui, dello zucchero non ha più bisogno.

      Paga ed esce. Riprende a vagare tra i banchi del mercato. Al banco del fiorista si ferma ad annusare i gigli. Ne prende uno, uno soltanto, bianco come la camicia nel suo armadio. Ha un buon profumo il fiore, quasi quanto il suo. Curioso. Qualsiasi cosa, oggi, le ricorda lui.

      Cammina sicura verso il banco della verdura, dall’altra parte della strada. Nelle cassette di legno sembra ci sia un arcobaleno su un prato, un mosaico di colori. Lei cerca di non pensare ai colori, solo alle consistenze, ai sapori.

      Ma è inutile.

      Pomodori. Fanno subito venire in mente il rosso.

      Carote. Arancione, senza alcun dubbio.

      Insalata. Verde nelle varietà più conosciute.

      Ora basta.

      Prende quello che le serve, guardando soltanto il tempo necessario per assicurarsi della qualità della verdura.  I colori spariscono in un sacchetto di plastica bianca. Si sente più tranquilla ora.

      Un altro paio di tappe, poi è tempo di tornare a casa. Il telefono oggi non ha proprio voglia di squillare. Lei lo posa sulla credenza, dietro un grosso orologio da tavolo. Preferisce non vederlo se non può sentirlo.

      Passa al sacchetto della spesa. Prima mette il giglio in un vaso pieno d’acqua, poi mette via il cibo. Tiene fuori solo quello che le serve. Comincia a sminuzzare le verdure sul tagliere. Solo dopo un po’ si accorge di stare cantando, ma non smette. Anzi, canta a voce più alta. Come se la canzone fosse un ingrediente da mettere in pentola assieme alla carne e alle verdure. Cantare dà sapore alle cose.

      Un canto le risponde dalla sala da pranzo. Lei lo riconosce, e il cuore le batte forte. Mette giù il coltello, si lava le mani, si affretta in sala. Non guarda il numero sul display, risponde subito.

      “Ciao.” Riconosce la voce. La sua voce, anche distorta dal telefono, è la melodia che preferisce.

      “Ciao” ripete lei. Si sente avvampare, timida come la prima volta.

      “È bello sentirti.” Una frase che può sembrare banale ma che non lo è affatto, non per lei, non oggi. “Temo di aver dimenticato qualcosa da te, ieri sera.”

      “La camicia. Quella bianca…” Si interrompe. Non ha senso. “Quella col colletto doppio e i bottoni piccoli. La mia preferita.”

      “Sì, quella” le risponde. Poi attende. È il suo turno.

      “Puoi passare a prenderla, sto cucinando, ti andrebbe di cenare da me? La strada la conosci.” Parla in fretta, per paura di essere interrotta. Silenzio. “Andrea?” Non risponde, chissà a cosa sta pensando. “Scusa, lo capisco se non ti va…”

      “No, è solo che mi hai preso alla sprovvista. Volentieri. A stasera.”

      “A stasera” ripete lei, e aspetta che sia lui a riagganciare.

      Il resto della giornata è tediosamente lungo. Lei prepara le cena, rassetta la casa, si fa una doccia e indossa un vestito carino. Si trucca, anche se lui continua a dirle che è bella anche senza. Il tempo riprende a scorrere soltanto quando lui bussa alla porta.

      “Entra pure” gli dice dalla sala da pranzo. Sistema il giglio a centro tavola. Con il suo profumo, è certa che lui non potrà non notarlo.

      Sente la porta aprirsi e chiudersi, lo sente spostarsi nell’ingresso.

      “Dovevi portarmi la camicia. Hai rotto il patto” le dice. Non sembra arrabbiato. Divertito, piuttosto. “Se non dimentichi qualcosa di tuo da me, che scusa avremo per continuare a sentirci?”

      “Puoi sempre lasciarla qui” gli risponde dalla sala da pranzo. “Sembra si trovi bene nel mio armadio. Ha conosciuto tante nuove amiche.”

      Lo sente ridere. Quanto le piace la sua risata!

      Si affaccia sul corridoio. Lui la sente, si volta.

      “Potresti portarne altre” gli dice lei. Esita, prima di concludere: “potresti venire a stare qui, da me.”

      Lui scuote la testa. “Lo sai, io non…”

      “Lo so” taglia corto lei. Ne avevano già parlato. “Pensavo solo… stai imparando a conoscere la mia casa.”

      “Vieni qui” le dice, tendendole la mano. Lei si avvicina, la sfiora con le dita. Lui le prende la mano tra le sue. Le accarezza il volto seguendo il profilo delle labbra, poi sale a lato del naso, percorre l’arco delle sopracciglia e scende lungo gli zigomi. Ormai le sue dita conoscono a memoria la sua fisionomia.

      “Un giorno, forse. Per ora… è bello sentirti.”

      Lei sospira, lo abbraccia. Alza gli occhi a guardare il suo volto, a cercare i suoi che invece guardano lontano, in un luogo in cui non esistono forme e colori. Il suo cuore le batte contro la guancia. Stretta al suo petto, inspira il suo profumo.

     “Sì… è bello sentirti.”

2 commenti:

  1. Dunque, io non sono uno che commenta, ma questo racconto merita tanti, tantissimi complimenti! E' scritto davvero molto bene: scorrevole, chiaro e soprattutto non è banale sotto nessun punto di vista!!!
    Spero vivamente che pubblicherai altri di questi racconti: hai davvero uno stile ispiratorio!

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  2. Grazie!
    Ci saranno SICURAMENTE altri racconti.

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