sabato 6 aprile 2019

Zacchera

Forse sarà più noto il verbo "inzaccherare" e il suo participio "inzaccherato", grazie ai quali si può arrivare senza sforzo a indovinare il senso della parola di oggi.

Zacchera [zàc-che-ra] s.f. Residuo di fango che rimane sotto la suola delle scarpe o schizzo che si attacca al fondo degli abiti.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Photo by Jimmy Jimmy from Pexels


Abiti e scarpe sporchi di fango possono voler dire qualunque cosa, da una partita a calcio in un giorno di pioggia, all'essere scivolati durante una passeggiata su una strada sterrata, a qualcosa di più strano e oscuro... Mentre riflettevo sul contenuto del brano, sono stata a lungo indecisa se dargli tinte horror, o un'atmosfera più leggera. Alla fine ho mescolato un po' di mistero e un po' di comicità.


Avevo le scarpe e l'orlo della gonna imbrattati da zacchere brunastre, eppure non ricordavo di essere uscita di casa. Sollevai la mano sinistra. L'anello al mio dito brillava di riflessi oscuri.
Samasa.
Samasa lo aveva fatto di nuovo: aveva lasciato a casa l'anello. Se non voleva che io ricordassi, allora doveva aveva usato il suo tempo per chissà quale azione nefanda e riprovevole. L'unico modo per sapere che cosa aveva in mente era far confessare il suo complice.
– Morisse! – chiamai, quasi urlando, mentre mi toglievo le scarpe. Attesi, ma il mio pestifero inquilino non si presentò. Come immaginavo. Aveva anche lui qualcosa da nascondere.
Vagai per la casa a piedi nudi, cercando in ogni anfratto: sotto al letto, dietro le porte, tra il divano e il tavolino. Niente, di lui non c'era traccia, neanche una piccola impronta sul tappeto.
Se era stato in giro con Samasa, si era ripulito per bene.
Alla fine lo trovai sul bancone della cucina, a curiosare tra i barattoli chiusi.
– Eccoti qui, bestiolina scorbutica – mormorai nell'avvicinarmi al gatto nero. – Ora mi dirai tutto, e me lo dirai subito.
Morisse non si voltò nemmeno. Aggrottai la fronte, poi lo afferrai per le zampe e lo trascinai verso di me. – Lo so che puoi parlare. Parla, gatto. Che cosa ha fatto stavolta la tua padrona? – chiesi, accennando alle zacchere sull'orlo della gonna. – Ha seppellito un cadavere? Ha dissotterrato un tesoro? Ha scavato una trappola? Ha coltivato fagioli magici? Cosa, gatto, cosa?
Lo scossi, ma tutto ciò che ottenni fu un miagolio acuto e una zampata sul braccio. Lo mollai e premetti la mano sul graffio che cominciava a bruciare. Crollai su una sedia.
Fissai le zacchere frastagliate, che mi impiastricciavano la gonna come se fossero state la mappa che avrebbe potuto condurmi alla risposta.
La cosa più difficile era non sapere, era l'incertezza che mi tormentava e che m'impediva di ragionare. Samasa si era tolta l'anello. Aveva rotto il nostro patto.
Forse era ora di chiedere aiuto.

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