lunedì 5 febbraio 2024

Anime senza colore


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Kei Scampa da Pexels


Da quando l'avevano rinchiusa in quel posto terribile, la vita per Keima aveva perso ogni colore. Non avrebbe saputo dire se a privarla dell'arcobaleno di sensazioni in cui era immersa fin da bambina fossero state le pillole che la costringevano a ingoiare, o il trattamento disumano di infermieri e dottori che in lei vedevano rispettivamente solo una seccatura o una malattia, o piuttosto le notti insonni in cui si raggomitolava sullo stretto, scomodo letto che era l'unico arredo della sua prigione, tappandosi le orecchie per non sentire le voci. Eppure, le voci urlavano lo stesso, tanto forte che ignorarle era impossibile. Voci di uomini e donne che piangevano, si lamentavano, supplicavano chiedendo pietà, e soprattutto gridavano nella morsa di una straziante agonia di lasciarli andare, lasciarli uscire, liberarli e Dio ti supplico, fa' che se ne vadano una volta per tutte, non ce la faccio più, pensava Keima nell'oscurità tormentata delle sue notti.
Una voce in particolare era la peggiore di tutte. Era difficile distinguere che cosa dicesse, e probabilmente Keima nemmeno lo voleva. Non osava immaginare quali empie oscenità si celavano in quel bisbiglio gracchiante, che le dava l'impressione di una malvagità senza pari, perché non appena iniziava a risuonare nel cuore della notte, le preghiere e le urla delle altre voci si moltiplicavano e si facevano ancora più terribili nel loro dolore.
Ogni tanto, verso l'alba, ma non tutte le notti, si faceva viva la voce che Keima aveva soprannominato "la strega", perché era solita cantilenare rime senza senso con voce stridula. Quando udiva la strega Keima provava un immediato sollievo, poiché quando parlava lei, tutte le altre voci tacevano. Andava avanti per cinque o dieci minuti buoni, o almeno così le pareva, era difficile valutare il tempo di notte e senza un orologio. Non ne aveva, così come non aveva niente che fosse suo in quel posto, nemmeno la camicia da notte logora o la tuta grigiastra che indossava di giorno, glieli avevano forniti loro, rigorosamente senza bottoni con cui avrebbe potuto soffocarsi nell'ingoiarli o cinture da stringere al collo.
Erano attenti a non lasciare nemmeno l'ultima via di fuga in quel posto maledetto, Keima lo aveva capito fin da subito grazie alle voci.
Ai dottori Keima non aveva parlato delle voci. Temeva che, se lo avessero saputo, le avrebbero considerate un ulteriore sintomo della sua malattia, e le avrebbero dato altre pillole col risultato di intontirla del tutto, e ridurre il suo mondo a una nebbia inconsistente.
Era già abbastanza brutto perdere i colori, se avesse perso anche la capacità di percepire le forme, che cosa mai sarebbe rimasto di lei?
E inoltre, aveva il sospetto che nessuna pillola sarebbe riuscita ad attenuare le voci.
Le voci erano reali, molto più della realtà monocroma in cui Keima era costretta a vagare di giorno. Gli altri pazienti, quando la incontravano nella sala comune o durante i pellegrinaggi nei lunghi corridoi diretti allo studio di un medico, sempre rigorosamente scortati da due infermieri rudi e scorbutici, le rivolgevano sguardi allucinati e farfugliavano idiozie senza senso. Nessuna di quelle voci somigliava a quelle che Keima sentiva di notte, perciò era certa che non fossero le voci dei pazienti quelle che urlavano di terrore nel buio, quelle che supplicavano di essere liberate.
Non i pazienti imprigionati attualmente in quella struttura da incubo.
Dovevano essere accadute cose terribili nel passato di quel luogo, cose che lei, con la sua particolare sensibilità, era ancora capace di percepire, nonostante l'avessero imbottita di pillole tanto da privarla di ogni gioia, da renderla insensibile e apatica, da sbiadire ogni colore.
Keima li ricordava solo vagamente, da quando era stata rinchiusa lì. Ricordava come, un tempo, ai suoi occhi ogni persona aveva il suo colore, lievi sfumature di rosso e d'azzurro, di verde e di viola, e giallo e rosa e arancione, colori bellissimi, colori gustosi.
Non c'era nulla di paragonabile lì, anche il cibo era grigiastro e insapore.
Quella mattina, dopo una notte particolarmente tremenda, una notte in cui il sussurro malvagio era passato a torturarla ben due volte, strappandole rantoli di terrore e suppliche soffocate assieme alle altre voci, e in cui la strega non era giunta con la sua cantilena insensata a portarle sollievo, due infermieri vennero a prenderla nella sua stanza per portarla dal dottore, senza darle nemmeno il tempo di cambiarsi.
Era insolito, perché le visite non cominciavano se non dopo colazione, dopo le pillole, e gli infermieri portavano via i pazienti prigionieri in un limbo sonnolento quando si trovavano nella sala comune, non nelle strette celle in cui erano costretti a dormire, chiusi a chiave nella loro solitudine.
Che avessero capito il segreto che lei così accuratamente custodiva, e che intendessero cambiare la sua terapia nel tentativo di zittire le voci?
Lo studio non era nemmeno lo stesso in cui la conducevano ogni volta. Il dottore non era lo stesso.
Questo era alto, allampanato, con uno sguardo severo che lo faceva assomigliare più a un avvocato, o a un inquisitore, che a uno psichiatra.
– Keima Irida – lesse il dottore dalla cartellina quando rimasero soli, separati da un'ampia scrivania. – Detta "la strega", o "la divora-anime". Sai dove ti trovi?
– Manicomio... – biascicò Keima, affaticata dai residui delle pillole della sera, e dalla tremenda notte insonne appena passata. Odiava quegli interrogatori, i dottori la trattavano sempre come una bambina ignorante.
– ...criminale di Alsberg – concluse in tono sbrigativo il dottore. Poi allineò sul bordo della scrivania più vicina a lei tre pillole accanto a un bicchiere d'acqua. Probabilmente avevano colori diversi, ma Keima non riusciva a distinguerle.
– Sai che cosa fanno? – Chiese il medico. – Ti è stato detto lo scopo della tua terapia?
Lei scosse la testa. Sapeva soltanto che la rendevano debole, e che avevano precipitato il suo mondo variopinto in una tediosa tetraggine.
Il dottore indicò la prima pillola. – Questa ti impedisce di fare del male. A te stessa, o ad altri.
Keima soffiò un debole sbuffo. In un posto del genere, i dottori erano molto più paranoici di coloro che pretendevano di curare.
Il dottore indicò la seconda pillola. – Questa blocca le tue particolari... capacità. È necessario, dal momento che le hai usate così male.
Keima fissò la pillola di mezzo con odio. Eccola, quella che le aveva tolto i colori dagli occhi, quella che l'aveva precipitato in un limbo monocromo. Keima rivoleva l'arcobaleno, e l'avrebbe riavuto a ogni costo.
Peccato che per lei la pillola di mezzo fosse indistinguibile dalle altre, quand'erano tutte e tre nel bicchierino in cui gliele consegnavano, e che si sentisse sempre così fiacca, e che la sua mente un tempo così acuta, astuta, si era fatta troppo lenta per ideare un piano.
– E questa – disse infine il dottore, indicando la terza pillola. – Questa ti permette di sentire il dolore di tutte le anime che hai rubato. Sì, tutta la forza vitale che hai sottratto, intrappolandola dentro di te, le anime divorate, abbiamo trovato il modo di farti sentire in maniera concreta il peso della tua colpa.
Mentiva, si disse Keima. Era ovvio: avevano capito che lei li sentiva, i fantasmi che infestavano il loro bel manicomio, e non volevano che lei ascoltasse le loro voci, non volevano che lei scoprisse che cosa avevano fatto in passato a coloro che l'avevano preceduta, che li liberasse dal loro tormento rivelando i turpi segreti di quei cosiddetti medici.
Il dottore riunì le tre pillole in un bicchierino di plastica e lo posò accanto al bicchiere d'acqua, poi la fissò con quel cipiglio severo da inquisitore e dichiarò: – Keima Irida, devi liberarle. Devi lasciar andare le anime che trattieni. Questo è il primo passo che devi compiere per redimerti.
Dentro di lei, le voci iniziarono a urlare.

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