lunedì 19 febbraio 2024

Viaggio senza destinazione


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Keira Burton da Pexels


Dicono che se vuoi conoscere il mondo, devi andare in una stazione. E non solo perché è da lì che partono tutti i treni, quelli diretti in oriente e quelli diretti in occidente, i treni verso il settentrione e i treni verso il meridione, e per qualunque altra destinazione possa venirti in mente; ma anche, e soprattutto, perché ogni giorno il mondo si riversa fuori da quei binari e da lì sciama nelle viscere della città.
Io volevo conoscere il mondo, ma non avevo i fondi necessari per un biglietto; prendere dimora nella stazione fu quindi un passo naturale. Divenni uno del popolo dei cartoni, così chiamati per il materiale di cui erano fatti i nostri letti.
E fu così che scoprii la dura verità: il mondo non aveva tempo per me.
All'inizio, quando ero un giovane di belle speranze, avevo provato ad avvicinare i passeggeri che scendevano dal treno per chiedere loro chi erano, da dove venivano, per domandare una storia dal loro paese o la condivisione di un ricordo. I più mi avevano ignorato, come se non fossi stato lì, come se fossi stato invisibile. Qualcuno si allontanava con fastidio, o peggio ancora, richiamava l'attenzione di uno dei guardiani della legge, anche se io non avevo fatto nulla di male, non avevo rubato, non avevo nemmeno chiesto denaro, avevo solo commesso l'errore di rivolgere loro la parola. E cos' fuggivo, andavo a rifugiarmi nel mio angolo, andavo in un posto dove non avrei causato fastidio.
Con l'andare del tempo, avevo smesso di domandare, e avevo iniziato ad ascoltare.
Ero diventato uno spettatore di vite di passaggio.
Funzionava così: all'ora di punta, io mi sedevo su una panchina, fingendo di essere un viaggiatore in attesa del suo treno, fissavo il tabellone degli orari, pure, e aprivo bene le orecchie.
Tra il tamburellare di innumerevoli scarpe, tra il cigolio delle valigie con le ruote trascinate dai loro proprietari, tra il brusio incessante delle voci, se ero fortunato, talvolta riuscivo a cogliere spizzichi di conversazione. Era così che ero venuto a sapere di quanto fossero belle le scogliere di ghiacci di Istain, su nel lontano settentrione, dove la gente aveva i capelli azzurro gelo e di notte faceva così freddo che uno straniero impreparato poteva congelarsi in pochi istanti, o che avevo scoperto il segreto delle donne dipinte di Lapali, nel cuore dell'oriente, e che avevo imparato a distinguere un fiore di Osch da un'erba Gruba, anche se non avevo mai visto nessuno dei due perché crescevano molto più a sud della stazione in cui vivevo, anche se il mio ricordo preferito era quando avevo assistito a un tradizionale scambio di doni da parte di una famiglia originaria di Macaras, una delle capitali dell'ovest, che si riuniva per la prima volta dopo anni passati lontano l'uno dall'altro.
Io me ne stavo seduto sulla panchina, guardavo, e ascoltavo. Non riuscivo a cogliere tutte le voci, smorzate dagli echi amplificati dalla volta del soffitto altissimo, e talvolta sormontate dall'annuncio dell'arrivo di un treno da parte di una potente voce metallica, ma ero grato anche soltanto delle briciole con cui riuscivo a nutrire la mia anima che anelava sempre al viaggio, al desiderio di andare altrove, di conoscere il mondo. Tutti quelli che passavano davanti alla mia panchina avevano una meta, e tenta fretta di raggiungerla, mentre io, anche avendone l'opportunità, non avrei saputo dove andare. Ma mi andava bene così, e pensavo che avrei continuato così fino alla fine dei miei giorni, finché non accadde qualcosa di inaspettato.
Prima ancora che lei arrivasse, avevo udito il ritmo rullante dei suoi tacchi, ma non ci avevo fatto troppo caso. Era soltanto un altro dei passeggeri che mi passavano davanti, uno di quelli meno interessanti perché lei non stava parlando. Che fossero in compagnia di amici o impegnati al telefono, erano i passeggeri che parlavano che mi interessavano di più, quelli da cui potevo imparare molto di più di ciò che scoprivo dalla semplice osservazione.
Smisi di fare caso ai suoi passi, ed è per questo che non mi resi conto che si stavano avvicinando, né li sentii cessare di botto. Me ne accorsi solo quando la donna si sedette sulla mia panchina.
Era insolito. Nessuno si sedeva mai sulla mia panchina.
Solitamente ce n'erano a sufficienza di libere da non ritrovarsi costretti a condividere la seduta con un estraneo, in particolare un estraneo come me, che chiaramente non era un viaggiatore e che aveva visto tempi migliori. Eppure lei si era seduta e mi aveva parlato.
– Dove stai andando? – era stata la sua prima domanda.
Io l'avevo fissata inebetito, cercando di capire chi avevo di fronte. Sembrava una donna di città, una di quelle donne d'affari che nell'abbigliamento, nel taglio di capelli e nell'atteggiamento imitano il modo di fare maschile. Era difficile indicarne la provenienza, non avendo nulla di esotico o di particolare in sé.
La donna mi fissava in attesa di una risposta.
– Da nessuna parte – risposi, facendo spallucce.
– Eppure te ne stai qui, come in attesa di partire – mi incalzò la donna. – Dov'è che vorresti andare?
La mia mente vagliò tutte le destinazioni che passavano sul tabellone, senza soffermarsi su alcuna. Infine risposi: – Ovunque.
La donna rise. Era bello sentirla ridere, non avevo mai sentito una risata così, era calda e gioiosa, e allo stesso tempo... era inquietante, e terribile, e fredda.
Se un serpente potesse ridere, pensai, riderebbe esattamente così.
– Che cosa diresti, se potessi far avverare il tuo desiderio? – chiese la donna al termine della risata.
Rabbrividii. Era troppo bello per essere vero, per cui divenni diffidente. – Ti chiederei che cosa vuoi in cambio.
– Nulla. – replicò la donna, adagiandosi pigramente contro lo schienale. – Sul serio. Non voglio niente.
Poi trasse di tasca un biglietto e me lo porse. Ne avevo visti troppi, gettati nei cestini al termine della loro breve vita, nelle tasche semiaperte degli zaini, consegnati dal bigliettaio ai viaggiatori in fila o usati come improvvisati ventagli d'estate, per non riconoscerlo.
Era un biglietto del treno.
– Ne ho uno in più, e non posso usarlo. Un impegno dell'ultimo istante – si giustificò la donna. – Ma è un peccato sprecarlo, e tu sembri avere così bisogno di partire per un viaggio.
Afferrai il biglietto. Era strano. C'era il binario, il giorno e l'ora della partenza, ma mancava...
– Non c'è scritto la destinazione – le dissi.
Lei fece spallucce. – Tu non l'hai scelta.
Volevo dirle che non era così che funzionavano i biglietti dei treni, ma lei me lo lasciò in mano e si alzò.
– Un'ultima cosa – disse, mentre già mi dava la schiena, pronta ad andarsene verso il suo impegno dell'ultimo istante. – C'è un luogo dove l'oriente incontra l'occidente, dove nord e sud sono la stessa cosa. Puoi trovarlo, o puoi continuare a viaggiare per sempre. La scelta è tua.
Non feci in tempo a chiederle che cosa intendeva. La donna già si stava allontanando dalla mia panchina, e in breve tempo sparì tra la folla.

Binario zero, c'era scritto sul biglietto.
Abitavo nella stazione da tanto tempo che mi sembrava quasi di viverci da sempre, eppure non avevo mai saputo che nella esistesse un binario zero.
Sarà prima dell'uno, pensai, anche se avevo già fatto il giro due volte, senza trovarlo.
Sai quando cerchi qualcosa che hai smarrito, e hai pensato ormai di averlo cercato dappertutto senza trovarlo, e alla fine era proprio lì in piena vista, davanti ai tuoi occhi, ma tu non lo avevi notato?
Potresti giurare che sia comparso dal nulla, o che qualcuno ti abbia giocato uno scherzo, perché andiamo, se era lì, com'è possibile che tu non lo hai visto?
Così mi sentii quando trovai quel benedetto binario zero. Che, come da logica, era quello prima del binario uno.
Ero il solo ad attendere il treno sulla banchina. Quando arrivò, fui il solo a salire.
Era uno di quei treni moderni, iperveloci, con il corridoio ampio e i sedili blu in fila due per due.
Quasi tutti occupati.
Passando, vidi una ragazza nordica che leggeva un libro, i capelli blu acconciati in una treccia. Era talmente concentrata che non si accorse che le caddi quasi addosso alla partenza del treno, e non rispose alle mie scuse. I passeggeri che aveva di fronte, una coppia di uomini d'affari provenienti da qualche capitale occidentale, non alzarono gli occhi dai portatili su cui stavano digitando, nel concludere chissà quale contratto importante. L'altro lato del corridoio era in gran parte occupato da una scolaresca in gita da qualche isola del sud, erano inconfondibili i disegni a onde degli zaini e gli abiti coloratissimi. Ciascuno di loro fissava lo schermo del proprio cellulare. Più avanti, una coppia di donne dipinte in visita dall'oriente sembrava indossare una maschera tanto profonda era la loro imperturbabilità, il bianco della loro pelle in netto contrasto con il carminio delle labbra. Ammirai per un istante i loro abiti caratteristici, di cui sapevo quasi tutto ormai, prima salutarle e passare oltre. Non mi risposero. Non dissero una parola, né loro, né nessun altro.
Provai a chiedere: – Sapete dove va questo treno?
Cercai lo sguardo di uomini d'affari, di ragazzi, di donne, ripetendo più volte la domanda, ma nessuno rispose, nessuno si diede neanche la pena di guardarmi.
Mi ignoravano, come avevano sempre fatto.
E che diamine, ero diventato uno di loro, ero un viaggiatore anch'io, avevo obliterato il mio biglietto, eppure ancora nessuno si degnava di considerarmi?
Guardai fuori dal finestrino, e fui preso da un senso di vertigine. Non avevo mai immaginato che un un treno potesse correre così. Il paesaggio scorreva veloce, troppo veloce per riuscire a distinguere i contorni di qualcosa, e nei miei occhi si perdeva in un anonimo candore. Sembrava di viaggiare nella nebbia, di viaggiare sospesi nel nulla.
Non avrei trovato una risposta alla mia domanda fuori dal finestrino.
Proseguii avanti, sempre più avanti, alla ricerca di un controllore. Lui forse avrebbe potuto darmi una risposta, ed ero certo che, pur essendo uno dei guardiani della legge dai quali ero sempre fuggito, non mi avrebbe cacciato dal treno, né costretto a nascondermi in un angolo: io avevo un biglietto.
Cambiai vagone. Sembrava uguale al precedente: stessi sedili blu, stessa fila di luci in alto, stesso corridoio lucido. Persino le persone immerse nei loro pensieri sembravano le stesse. Stessi uomini d'affari che lavoravano in viaggio, stesse lettrici cullate dal ronzio e dal ritmo ipnotico delle ruote sui binari, stessi studenti in gita, stesse donne dipinte.
Beh, almeno per quanto riguardava loro, con quel trucco pesante che spianava i lineamenti, era difficile distinguerle l'una dall'altra.
Mi convinsi, man mano che passavo un vagone dopo l'altro, che le quelle persone mi sembravano tutte uguali perché non le conoscevo, e che se avessi scambiato due parole con una di loro, subito avrei notato quant'era diversa da tutte le altre che venivano dallo stesso luogo. Ma per quanto ci provassi, non ricevevo mai una risposta, e inoltre, c'era dell'altro.
La donna che leggeva non voltava mai la pagina.
Gli uomini d'affari continuavano a scrivere le stesse frasi.
Gli studenti scorrevano incessantemente sui loro cellulari senza mai fermarsi a leggere.
Alla fine non potei più negarlo. La gente che avevo incontrato non si somigliava soltanto, era proprio la stessa, e sembrava smarrita in un eterno loop senza scopo.
Che cosa aveva detto la donna che mi aveva dato il biglietto?
– Non hai scelto una destinazione – ricordai. – E se non trovi un certo luogo... un luogo impossibile... puoi continuare a viaggiare per sempre?
Dannazione.
Non sapevo quale fosse il suo scopo, perché mai mi voleva lì, ma quella donna mi aveva teso una trappola.
Quel treno non aveva alcuna destinazione, ed era costituito da un solo vagone.
E, a meno che non avessi risolto il suo enigma, non sarei mai riuscito a fuggire da lì.
Mi lasciai cadere sul più vicino sedile libero e mi misi a fissare il mio biglietto senza meta, la mente svuotata da ogni pensiero.
Fuori dal finestrino, ogni traccia residua di paesaggio si annullò in un candore accecante.

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