lunedì 27 marzo 2023

Incubo alla Edgar Allan Poe


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Dettaglio da una foto di Gerardo Manzano da Pexels


Pioveva nel riquadro vuoto della porta scorrevole shoji, un crepitio di gocce sui rami attentamente sagomati degli aceri ornamentali, sui fiori di ciliegio e sullo stagno delle carpe koi, macchie guizzanti di rosso e di bianco sotto la superficie verde perennemente increspata. Pioveva, ma non temevo più che la sinfonia ritmata sul tetto di legno della veranda risvegliasse il mostro, perché il mostro era sveglio, e il mostro ero io.
Maria trasalì al rintocco improvviso del bambù della fontanella shishi odoshi, che batteva a intervalli irregolari sulle pietre, e sciolse le braccia dal mio collo. Si allontanò di qualche passo da me, camminando a piedi nudi sulle fibre intrecciate del tatami. Mi diede la schiena e si passò una mano sul volto, ad altezza degli occhi.
Stavo per dirle che non era una mossa saggia, non nello stato in cui mi trovavo un quel momento, ma lei fu più svelta.
– È stata tutta una messinscena? – sbottò, furibonda com'era stata il giorno in si era precipitata in casa mia dopo aver trovato il mio biglietto di ringraziamento nel suo armadietto. – Almeno, Edgar Allen è il tuo vero nome, o anche questo è una bugia?
Maria mi fissò, e io ricambiai il suo sguardo, incapace di parlare. Non potevo dirle che stavo usando ogni oncia della mia volontà per trattenermi dal farle del male.
Se avessi ceduto, tutto quello che avevo fatto per lei sarebbe stato inutile.

Lui era calmo, così calmo, mio dio, come poteva essere così calmo? Immobile come una statua con quelle assurde enormi ali da pipistrello alle sue spalle, occhi torvi che mi seguivano, calmo come se lo avesse saputo da sempre. Mi aveva mentito, e perché lo aveva fatto, no, che senso aveva scrivere un intero diario di bugie...
Avevo creduto che lui fosse una specie di dottor Jeckyll e mister Hyde, e invece ora mi ritrovavo in un incubo alla Edgar Allan Poe, tanto per citare un autore il cui nome assomigliava incredibilmente al suo.
Così tanto che, a dire il vero, mi venne il dubbio che lui non si chiamasse davvero così.
L'ennesimo sbatacchiare convulso di quell'infernale aggeggio di bambù in giardino lo risvegliò dal suo torpore. Sarei corsa fuori a distruggerlo se non fosse stato per la pioggia, ma almeno era servito a qualcosa, oltre a mettermi ancora più ansia.
– Tutto ciò che ho scritto nel diario era vero – mi disse lui, la voce inespressiva come il suo volto. – La mia identità invece è rubata. Ne avevo il sospetto, prima. Ora, ne sono certo.
Non credevo che avrebbe potuto esistere in quel posto un suono più sgradevole di quel dannato bambù, finché dalla sua gola non sgorgò una risata gorgogliante di puro, malvagio piacere, simile a quella che avevo sentito fare alle donne demoniache che lo avevano sfidato a battersi con loro. Da loro me l'ero aspettata, loro erano il male, la violenza, l'odio. Ma non pensavo che l'avrei mai udita dalla gola di Ed.

Il mio primo ricordo. Quello che pensavo fosse il mio primo ricordo, prima di riassaporare la memoria di come ero stato abbandonato nella terra degli uomini, per morire, e di come invece ero sopravvissuto e avevo prosperato. Maria, con le sue domande, me lo aveva rammentato, ma ora che sapevo chi ero lo percepivo in un modo diverso. Il velo tra i miei ricordi era stato strappato come le mie mani dagli artigli affilati avrebbero potuto strappare la sottile carta di riso delle pareti fusuma che ci circondavano, e adesso potevo immergermi senza paura, anzi, con piacere, nel sapore del sangue e nel dolore di membra strappate, nella memoria della carneficina che io, proprio io, avevo compiuto in quel bagno, e di cui finora avevo sperimentato soltanto, e con spavento, le conseguenze.
Da una delle mie vittime, un ragazzo che all'epoca aveva la mia età e che mi somigliava a sufficienza, avevo ottenuto il mio nome.
Maria mi tese la confezione delle pillole. Non so dove le avesse tenute fino a quel momento, né perché le avesse con sé. Ma notai che allungò più che poteva il braccio, tenendosi a una prudente distanza, forse allarmata dalla mia risata.
Non avrebbe fatto differenza se avessi deciso di attaccarla. Ero ferito e ancora debilitato, ma una donna umana non era una sfida, dopo aver sconfitto tre giovani Succube.
– Non ne ho più bisogno – le dissi, ed era vero. Avrei potuto tornare a fingermi un essere umano come e quando volevo, senza più bisogno di un guinzaglio fatto di chimica, che oltretutto indeboliva la mia mente insieme al mio corpo. Ma lei equivocò.
– Vuoi restare per sempre così... un demone?
– Incubo – la corressi, poi sospirai e contrassi le ali contro la schiena fino a riassorbirle nella mia carne, e ritirai gli artigli neri nelle dita fino a rivelare polpastrelli rosa e normalissime unghie umane. – Visto? Non ne ho bisogno.
Il mio sangue gocciolava come pioggia nera sul tatami, sporcando con il suo odore metallico l'aroma di thè di cui la stanza era pregna, e solo allora lei se ne accorse e ricordò di essere un'infermiera. O, forse, la paura che aveva avuto di me stava svanendo. La lasciai fare, mentre ancora mi concentravo sul non squarciarle la gola.

Che stupida, non mi ero resa conto che Ed era ferito. O meglio, lo avevo visto, sì, ma un demone, ops, incubo ferito era una cosa, e un uomo ferito era un'altra. Quando era tornato umano in pochi secondi di fronte ai miei occhi era diventato all'improvviso chiaro che aveva bisogno del mio aiuto, come ne aveva avuto bisogno il giorno dell'incidente, il giorno in cui lo avevo incontrato. Gli girai attorno per esaminarlo, e scoprii che le ferite sulle sue ali si erano trasferite sulla sua schiena, in un incrocio di strappi sanguinanti nella pelle. Alcuni squarci erano profondi, ma non avevo modo di mettergli dei punti, così mi limitai a bendarlo con mezzi di fortuna.
Il suo sangue era ancora di un cupo nero verdastro, il colore che aveva assunto per la dose elevata di sumatriptan che Ed aveva miscelato nelle pillole, così non c'era da preoccuparsi che i padroni di casa capissero che qualcuno era passato di lì e aveva sanguinato sul loro pavimento. E a proposito di padroni di casa, pensai nel rivolgere lo sguardo tutto intorno nella stanza dalle pareti fin troppo leggere, e fuori, verso il giardino all'orientale. Quando avevamo attraversato il portale per abbandonare quel mondo infernale sotto una luna di sangue nel cielo livido, non mi ero chiesta dove quel vortice ci avrebbe condotto, mi bastava solo sapere che quella era la via per tornare a casa.
Ma questa non era casa mia, né la casa di Ed. Era un posto sconosciuto e, da quanto mi era dato di vedere, dall'altra parte del mondo.
– Siamo... siamo in Giappone? – gli chiesi, strabuzzando gli occhi, e già facevo piani su piani su come saremmo potuti tornare a casa, non avevo un passaporto, la carta d'identità... no, nemmeno quella, non avevo pensato di prendere la borsa quando ero stata rapita da una demone, a meno di non attraversare di nuovo il portale ma la sola idea di ritornare in quell'altro mondo anche se solo per pochi istanti, di passaggio, già mi metteva i brividi...
Ed rise di nuovo, ma stavolta era una risata umana, divertita, e mi prese la mano, e tutte le mie preoccupazioni si sciolsero in rivoli di pioggia.

Uno scrittore americano il cui nome assomigliava incredibilmente alla mia identità rubata, Edgar Allan Poe, faceva spesso riferimento nelle sue opere al demone della perversità, ma quello di cui parlava non era un vero e proprio demone. In poche parole, il demone della perversità è quella forza che spinge gli esseri umani, e sì, anche gli Incubi e le Succube, a fare proprio ciò che sanno di non dover fare, perché contrario alla legge o alla propria morale, nel caso degli esseri umani, o perché gli è stato ordinato di non farlo, o perché paradossalmente è ciò che non desiderano fare.
Io non ero immune a quella forza e da quando ero tornato, ero in lotta con essa. Maria mi piaceva, e per la sua vita oltre che per la mia libertà avevo combattuto contro le Succube, e nelle sue mani avevo messo la mia esistenza poiché se avesse parlato le Succube sarebbero tornate a completare il lavoro, e questa volta non avremmo ricevuto la visita delle giovani pretendenti, bensì di una delle regine. Non volevo farle del male, eppure, nonostante questo, morivo dalla voglia di piantare i miei artigli nelle sue carni.
Avrei dovuto trovare una soluzione a questo dilemma.
La sua domanda mi distrasse, almeno per un momento. Non le avevo ancora detto che stavo aspettando che smettesse di piovere per andarcene.
– No, no, non siamo in Giappone – replicai, sebbene l'atmosfera fosse ricostruita alla perfezione, dal tokonoma, l'alcova rialzata alle mie spalle in cui era appeso un rotolo kakemono fitto di caratteri giapponesi, alla fossa per il kama, il bollitore dell'acqua per il thè, che però in questa stagione era coperta, al ginko biloba che dominava il giardino, tra curve sinuose del vialetto, cespugli dalle sagome arrotondate e lanterne di pietra a forma di pagoda, in cui ancora risuonava il rintocco ripetuto e irregolare della canna di bambù di una shishi odoshi, assieme al lieve ritmo delle campane a vento quasi completamente sovrastato dalla pioggia. – No, siamo in una casa del thè circa dieci chilometri a sud del tuo ospedale. Niente paura, non verrà nessuno, oggi è il turno di chiusura.
Mi avvicinai alla porta e scrutai fuori. Conoscevo quel luogo, e ne avevo assorbito le abitudini e il linguaggio così come avevo appreso a parlare la lingua di Maria, e a comportarmi da essere umano, fino ad arrivare a credermi uno di loro.
– Venivo spesso qui, una volta – dissi a Maria, senza voltarmi. Un po' di distanza tra noi, per il momento, era sufficiente a placare il demone della perversità che bramava il suo sangue. – Quando avevo bisogno di cercare pace in mezzo ai miei incubi.
Lei si avvicinò a me. Scossi la testa. Che donna imprudente!
– Non credo che tornerò più qui, però – le dissi, bevendo per l'ultima volta con gli occhi la danza delle carpe koi nello stagno. – Ora so che è di altro, non di pace, che ho bisogno.

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