lunedì 3 aprile 2023

La solitudine delle maschere


Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero
Foto di Francesco Ungaro da Pexels


Da quando avevo detto addio alla nave volante e avevo riconquistato la mia libertà, mi ero data da fare. Non avevo faticato troppo per acquisire in modi non convenzionali un carro da gitani e la coppia di robusti equini indispensabili per trainarlo di qua o di là, a seconda di come girava il vento dei miei affari. Nel giro di pochi mesi, inoltre, ne avevo addobbato l'interno con una varietà di chincaglierie appese ai travetti sul soffitto, lanterne dalle forme bizzarre, stelle e lunette di vetro, pesciolini di legno, campane a vento, campanelle di metallo a forma di fiori rovesciati. Tutta quell'accozzaglia faceva un baccano del diavolo ogni volta che percorrevo le strade bianche o malamente lastricate che si allungavano pigre tra i campi di grano macchiati dal rosso dei papaveri e dal blu dei fiordalisi. Il calore del sole era di nuovo mio amico, un tepore diverso dall'asfissiante canicola che si abbatteva sulla mia schiena sulla tolda della nave in cui ero stata prigioniera, e la brezza gentile dall'est accompagnava il mio cammino.
Potevo fare quello che volevo e andare dove volevo. Non avevo bisogno di altro.
Fu alla città di Granporto, che fantasia in quella regione, che mi sentii finalmente pronta a recitare il mio grande spettacolo, la scena madre per la quale mi ero tanto preparata recuperando qua e là i costumi necessari per le mie maschere, e racimolando i fondi nell'interpretare tra una tappa e l'altra del mio viaggio qualche parte minore. Nulla che non avessi già fatto in passato, il mercante Angus Aberdeen con il suo Serum Veriterum, il marinaio Pinus con le sue smancerie alle belle signore, le sue proprietà aurifere in terre esotiche e le sue false autentiche mappe del tesoro, il monello Solanum Dulcamara, tanto bisognoso d'aiuto per la sua sorellina in pessime acque da impegnare il suo unico tesoro, un cimelio di famiglia dai poteri straordinari.
Durante le mie improvvisazioni mi rincuorò scoprire che nonostante il tempo trascorso, il fiuto per gli affari e il buon cuore della gente non fossero affatto cambiati.
Come dicevo, quando giunsi a Granporto, tutto era pronto. Ma per non rovinare la sorpresa, in un primo momento lasciai il carro fuori città, al riparo in una selva, dove il frastuono delle innumerevoli chincaglierie appese, alcune delle quali erano state spostate all'esterno per sfruttare la collaborazione del vento, sarebbe stato scambiato per la voce degli spiriti arborei dalla superstiziosa gente di campagna, che si sarebbe così tenuta alla larga. Mentre la sottoscritta, o meglio, il discreto e affabile Triticum Aestivum, si sarebbe aggirato in città alla ricerca di un posto da notaio, senza destare troppa attenzione se si informava sulle famiglie più abbienti del circondario e le ultime vicende che le riguardavano, le loro fortune e sfortune, le morti e le successioni.
Era poi la volta del pacchiano Papaver Rhoeas, e lui sì che lo avrebbero notato mentre si esibiva in giochi di abilità con oggetti lanciati in aria e almeno una volta su tre ripresi al volo, e con le sue canzoni forse un po' stonate, ma talmente memorabili da non riuscire a scacciarne dalla mente i motivetti e le rime. Papaver Rhoeas che si sarebbe profuso nelle lodi della mistica e profetica chiaroveggente Centaurea Cyanus, colei che consolava gli inconsolabili e recava messaggi dall'aldilà, dall'aldiqua, e dal dovunque.
Quando nei panni di Papaver Rhoeas fui certo che la notizia fosse giunta a una delle famiglie su cui Triticum aveva fatto ricerche approfondite, poiché un messo con le loro insegne venne a chiedere informazioni sulla portentosa divinatrice e se ne andò con la risposta che l'impareggiabile oracolo sarebbe giunto presto in città, poiché lei arrivava sempre dov'era necessario che fosse, fu il tempo di far sparire Papaver Rhoeas ed entrare finalmente a Granporto in pompa magna, con una nuova maschera e un carro risuonante di portentosi tintinnii e lignei sbatacchiamenti.
Impossibile non notarmi stavolta, e non capire che la tanto attesa e famosa Centaurea Cyanus era giunta in città.
Dovetti soddisfare qualche cliente minore in attesa che il pesce grosso abboccasse, ma fu piuttosto semplice. Di alcuni avevo saputo le vicende origliando le chiacchiere tra i cittadini nei panni di Triticum o di Papaver, per gli altri era bastata qualche frase generica che loro stessi si erano poi affrettati a completare di dettagli nel corso della seduta. E quando non sapevo che dire o stavo per essere colta in fallo, potevo sempre ricorrere alla levitazione del tavolo, alla pioggia di piume candide dall'alto, al soffio di un mantice che risuonava ululante in un cono d'ottone, o al bagliore delle lanterne riflesso altrove da una serie di specchietti mobili, il tutto facilmente azionabile da una serie di leve e fili nascosti senza muovermi dal mio posto.
La mia magia non aveva mai mancato di impressionare la brava gente in cerca di risposte, e ciò che chiedevo per le mie esibizioni era un piccolo prezzo di fronte alla certezza della sorte toccata ai loro cari e al sollievo che potevo offrire.
Infine, giunse il momento. Un messo con le stesse insegne di quello che aveva chiesto informazioni a Papaver Rhoeas venne al mio carro per invitarmi al palazzo dei suoi padroni, ma io fui irremovibile. Per conservare i miei poteri, non potevo addentrarmi in luoghi dove regnava il lusso, né in altre dimore o in locande al chiuso. Se lo avessi fatto, se avessi rinnegato l'aria aperta e il cielo, la luna e le stelle, e gli stessi dei che mi avevano benedetto con i loro doni, mi avrebbero maledetto togliendomi non soltanto la vista dell'oltre, ma anche quella terrena. Non c'era altra soluzione che venire a interrogarmi dove stavo, o non venire affatto e perdere così l'occasione della propria vita.
Sapevo che quell'ultimatum avrebbe funzionato. Funzionava sempre.
La donna impellicciata che giunse al mio carro accompagnata da una scorta, che rimase ad aspettare fuori, non volle dirmi il suo nome, ma io sapevo che era proprio la persona che attendevo. Con lei sfruttai fino all'ultimo dei miei trucchi, tavolino levitante, piume, ululato cavernoso e bagliori vaganti, ma il tocco di genio, la battuta migliore di quello spettacolo, mi giunse per un colpo di fortuna.
La donna, fin dall'inizio della seduta, teneva tra le mani un medaglione con la foto della defunta prozia che intendeva contattare. Le presi le mani, all'inizio della seduta, e riuscii così a decifrare al tatto, sul retro del medaglione, un'incisione che pareva una dedica a un nome che non era quello della mia ospite. Era un nomignolo buffo, familiare, uno che si sarebbe potuto affibbiare a una bambina, ed era semplice indovinare che quello fosse il modo in cui la prozia in vita aveva chiamato in segreto colei che mi stava di fronte. Era un'informazione che non avrei potuto ottenere da un estraneo, ma la tenni per me, in attesa che la nobildonna fosse abbastanza incantata dal mio spettacolo da dimenticare che le avevo preso le mani con le mie. Solo allora, non prima, le riferii il messaggio della defunta prozia concludendo con quel nomignolo, pronunciato in tono incerto e strabuzzando gli occhi come se non sapessi a che cosa la presunta voce dall'aldilà si stesse riferendo.
La donna di fronte a me lo capì eccome, e come avevo previsto, lo strabiliante miracolo di quel nome che non pensava più di udire riempì lei di lacrime, e me di monete. Quando se ne fu andata, lasciandomi un extra sul tavolo oltre alla cifra esorbitante che già avevamo concordato, mi voltai di lato con un sorrisetto soddisfatto. Ma al mio fianco non c'era il Corvaccio a complimentarsi con un grugnito e a pretendere la sua parte, né il Furetto a criticarmi e a spronarmi alla zuffa perché lui nei panni della veggente avrebbe certamente saputo scucirle di più. E nemmeno c'era il capitano della nave volante Fortuna Maior, o il suo secondo in comando e moglie Ekira Bright, né la cuoca dei pasti a sorpresa, o cantastorie profeta di Galam che mi aveva incastrato, o la vedetta visionaria, o il nostromo annunciatore di sciagure, o i due mozzi che avevano sgobbato con me sul ponte e che avevano tanto apprezzato l'idea di dividere il lavoro con qualcuno di diverso ogni giorno. Non c'era nessuno di quella sgangherata compagnia che mi aveva conosciuto per come ero, che aveva imparato quanto le maschere fossero parte di me, non un mero strumento per l'arte di Galam che esercitavo, ma uno specchio della mia anima e del mio umore.
Nessuno di coloro che erano venuti a consultare Centaurea Cyanus, o che erano passati accanto a Triticum Aestivum senza vederlo, o che avevano riso e cantato con Papaver Rhoeas avrebbe mai capito quanto le mie maschere fossero oneste. Loro, che credevano di essere la stessa persona nella gioia e nel dolore, nel parlare da figlio o nel comportarsi da padre, nello scoprire che avevo dato nomi diversi e diversi atteggiamenti alle sfumature che erano parte di me avrebbero inevitabilmente pensato a un inganno. Non mi avrebbero nemmeno ascoltato se avessi provato a spiegare che non era così, o meglio, non era così sempre.
Sulla Fortuna Maior non avevo truffato nessuno... d'accordo, escludendo il capitano e la sua signora che avevo minacciato con un segreto da non rivelare per costringerli a lasciarmi andare, non avevo truffato nessuno, eppure avevo continuato a indossare la maschera che di volta in volta più mi rappresentava. Perché io ero così, e su quella nave tutti, anche coloro che erano stati più diffidenti nei miei confronti conoscendo il mestiere che esercitavo, avevano cominciato a capirlo.
E lì, da sola, col mio bottino di fronte, il tintinnare della cianfrusaglia sul soffitto, le mie mille maschere e tutta la libertà del mondo, iniziai a capire a cosa avevo rinunciato.

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