giovedì 11 marzo 2021

Compagni di silenzi

Ho scritto più di un racconto ambientato in un giardino, ma solo uno in un parco su questo blog. Se ti va di leggerli, ti segnalo per i giardini:

Ninfeo (https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/06/ninfeo.html)
Libagione (https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/03/libagione.html)
Schizzo (https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/01/schizzo.html)
Malerba (https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/03/malerba.html)
Il giardino della driade (https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/09/29-garden-giardino.html)
Vetusto (https://lapiumatramante.blogspot.com/2021/01/vetusto.html)

E per il parco:

Passeggiata artistica (https://lapiumatramante.blogspot.com/2020/03/passeggiata-artistica.html)


E ora passiamo al racconto di oggi. Per scriverlo ho utilizzato, come tappeto sonoro, Painting Outdoors Ambience (https://www.youtube.com/watch?v=TXraWaTsSJI&t=1987s) di Chetta Monster.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Rachel Claire da Pexels 


Il giardino sul retro era la mia parte preferita della casa. Ci si poteva arrivare solo dopo aver attraversato un lungo corridoio di rampicanti abbarbicati a una serie di tralicci ad arco, così da formare una volta verde che filtrava i raggi del sole in una penombra profumata di fiori. Al termine, pochi gradini conducevano a un varco nel muro che si allungava tra la parete della casa e la siepe di confine, e una volta oltrepassato, si veniva inondati dalla luce.
Amavo trascorrere ore tra le aiuole che curavo io stessa e gli arbusti di rododendro e di ginestra. Quasi nessun altro dei condomini nutriva il mio stesso smodato interesse per il giardino, tanto che quando presi in affitto un appartamento in quel palazzo, il giardino era in rovina. I tralicci, dopo anni di incurie, erano diventati una selva rigogliosa, difficile da attraversare, in cui mi ero spinta con la caparbietà della mia bizzarra inumana natura, scoperta da poco grazie a Mirto. Non sapevo ancora bene come fare, ma mi bastava un tocco affinché le piante arretrassero e mi lasciassero passare. Il varco era tutt'altra storia: ostruito da una vecchia porta scardinata, non avrei proprio saputo come raggiungere il tesoro al di là, che sentivo chiamarmi, se non fosse stato per il mio dirimpettaio, il pittore Bertrand. Non so se il mio silenzioso vicino, un uomo sulla sessantina, con una barbetta bianca da capra e una testa pelata circondata da una lanugine candida, avesse notato il cambiamento che Mirto aveva portato in me, la mia nuova sicurezza e la curiosità che aveva sostituito la paura. Ma quel giorno mi vide, e si avvicinò, e a gesti si fece capire, e insieme spostammo la porta e trovammo ciò che restava del giardino: piante secche, vasi rovesciati e rotti, pietre del vialetto divelte da radici affioranti e una selva senza fine di erbacce.
Ci volle pazienza. Cominciai dai pressi del varco e sistemai un angolo alla volta. Il mio lavoro si svolgeva solo in parte con le mani e con le braccia. Il resto del tempo lo passavo immobile, a piedi nudi sulla terra, o seduta con le dita affondate tra l'erba, mentre la mia coscienza era altrove, negli steli e nei semi e tra le venature del ramo di un albero. Ogni tanto Bertrand veniva a farmi compagnia, ma non parlava mai e non mi aiutava. Portava una tela bianca e si metteva a dipingere, e l'unico rumore che faceva era il delicato tintinnare sordo e liquido del pennello contro le pareti del bicchiere pieno d'acqua, quando lo sciaquava per pulirlo prima di cambiare colore. Così ascoltavamo entrambi le chiacchiere dei fringuelli e dei tordi e di tutti gli altri alati compagni nascosti chissà dove tra le fronde, mentre eravamo intenti ai rispettivi compiti.
Bertrand non commentava nemmeno quando mi vedeva assorta, immobile, immersa in un mondo diverso da quello umano. Non che fosse muto, ne ero certa perché una volta, rincasando, lo avevo sentito parlare da solo in una lingua straniera dietro la porta del suo appartamento, probabilmente francese, e probabilmente al telefono. Ma non diceva una sola parola, nemmeno nella sua lingua, per tentare di svegliarmi da quello stato di torpore. Quando tornavo, talvolta lo coglievo a sbirciarmi con un sorriso, come se avesse capito quello che stavo facendo. Come se sapesse.
Fu solo quando il giardino e il corridoio di rampicanti che conduceva a esso furono tornati al vecchio splendore, o ancor meglio di com'erano un tempo avendo me a curarli, che Bertrand decise che a quel punto toccava a me comprenderlo. O forse, dopo tanti giorni passati assieme in silenziosa compagnia, quell'ometto cortese riuscì infine a rompere la sua naturale ritrosia e le barriere linguistiche che ci separavano. Mi aspettò con la porta aperta all'ora in cui di solito scendevo in giardino e mi indicò di seguirlo nel suo appartamento. Mi fidai.
Le pareti erano ingombre di quadri di ogni dimensione e sfumatura di colore, in ognuno un diverso paesaggio, scorci di laghi e campi di lavanda in fiore e giardini principeschi con fontane e alberi ornamentali di tutte le fogge. Tutti recavano l'inconfondibile tratto sognante di Bertrand, e non sapevo se provenissero dai suoi ricordi o dalla sua immaginazione, ma quello di cui ero certa, dopo averlo visto dipingere nel giardino sul retro, era che Bertrand non copiava mai sulla tela quello che i suoi occhi avevano di fronte. Ma non era per mostrarmi i suoi quadri che il pittore mi aveva invitato.
C'era un'unica foto all'angolo di uno scrittoio antico, la sola immagine, da quello che potevo vedere della casa, che ritraeva come soggetto un paio di persone, e non un paesaggio disabitato. Bertrand posò un bacio sulle dita di una mano e con quella accarezzò il vetro dietro cui riposava la foto, prima di passarmela con uno sguardo addolorato.
Nella foto, una ragazza dai lunghi capelli neri stava in piedi accanto a un uomo che riconobbi come una versione più giovane, forse con vent'anni di meno, di Bertrand. Lei non poteva avere più di diciassette o diciott'anni, e mentre lui era girato di fronte, impacciato e rigido davanti al fotografo, lei sorrideva con il viso rivolto all'obbiettivo ma il busto girato di tre quarti e la mano sinistra appoggiata alla spalla del pittore. La foto non era molto grande, ed era meno definita di quelle che si possono ricavare adesso da un comune cellulare, eppure riuscivo a vederle: sul dorso della sinistra, tra il pollice e l'indice, il simbolo delle tre rose era lo stesso che avevo io. Lo stesso che aveva ogni driade, a partire dal giorno in cui si risvegliavano i suoi poteri.
– Amarante – bisbigliò piano Bertrand nel suo accento straniero, richiamando il mio sguardo sul suo volto affranto.  – Ma nièce.

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