giovedì 18 marzo 2021

Non succede mai niente in campagna

Non ho scritto molte storie ambientate in campagna. Non so  perché, ma in vari anni di attività del blog, queste sono le uniche che sono riuscita a rintracciare:

Serata di burrasca in campagna (https://lapiumatramante.blogspot.com/2017/05/serata-di-burrasca-in-campagna.html)
Neghittoso (https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/04/neghittoso.html)
Buoni vicini (https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/08/buoni-vicini.html)
Vivagno (https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/11/vivagno.html)
Adombrarsi (https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/11/adombrarsi.html)
Greppia (https://lapiumatramante.blogspot.com/2018/12/greppia.html)


Posso sempre rimediare aggiungendone una oggi. Per scriverla ho utilizzato, come tappeto sonoro, Farm House (https://www.youtube.com/watch?v=W-94JGuYef0) di The Vault of Ambience.

Immagine liberamente disponibile su Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di William Green da Pexels


Non succedeva mai niente in campagna. Era tutto così pacifico e tranquillo. Ogni giornata era noiosamente identica alle precedenti, a cominciare dal mattino che iniziava tutte le volte col suo stupido canto del gallo e con quegli uccellini così fastidiosamente rumorosi, fino alla sera, quando le cicale erano talmente ripetitive da mandarti fuori di testa. Tutti facevano le stesse cose giorno dopo giorno dopo giorno, le mucche dondolavano la testa suonando i campanacci e dappertutto c'era un odore terribile, come quello di un bagno alla stazione dei treni, ma senza l'olezzo acre del cloro sottomarca usato per disinfettarlo. Così la pensavano i ragazzini di città, le rare volte in cui venivano a trovare i nonni o soggiornavano assieme ai genitori nell'agriturismo della zona.
I ragazzi di campagna erano stufi di questi pregiudizi e già da tempo avevano ideato, per i compagni di città più sprezzanti, un'esperienza assai poco ordinaria che aveva il potere di farli ricredere in un lampo. Cominciavano a parlarne fin dai primi giorni di permanenza della vittima designata. La storia della strega Asana Mei era un frammento del folclore locale a cui nessuno di loro credeva, eppure non esitavano a tirarla fuori nei loro discorsi mentre percorrevano a piedi assieme all'ignaro o ignara abitante di città una delle tante stradine di ciottoli bianchi, avendo cura di aggiungere alla storia particolari raccapriccianti che aumentavano ogni volta che la ripetevano, e di narrarli nel modo più vivido e impressionante possibile. Immancabile era la visita alla parte vecchia del locale cimitero, dove le lapidi s'inclinavano in ogni direzione all'ombra di un'enorme quercia e del suo compare faggio. Sfidare il ragazzo o la ragazza di città a trovare la tomba di Asana Mei era una goduria, una sfida vinta in partenza perché era noto a tutti che quella tomba non esisteva. A tutti, meno che all'ignaro cittadino.
L'ultima tappa di quel tour delle bellezze turistiche locali consisteva nell'accompagnare il loro coetaneo attraverso campi di grano e oltre il labirinto di granturco, fino a sbucare di fronte alle file parallele e serrate dei vigneti, a un piccolo crocevia di stradine bianche segnato da una pietra alta più di un uomo: la Pietra del Crocevia, appunto. Era lì che si diceva fosse sepolta la strega Asana Mei, in attesa di svegliarsi al richiamo di un'anima innocente.
Per arrivarci, naturalmente, bastava seguire la strada che fiancheggiava i pascoli del maneggio, ma non c'era gusto se il loro compagno di città non si perdeva in mezzo agli alti steli di mais almeno una o due volte, costringendo gli altri a tornare indietro a prenderlo spronati dalle sue grida angosciate. Quando arrivava alla Pietra del Crocevia in quella maniera era già cotto a puntino, e pronto a credere a qualunque assurdità gli avessero raccontato o mostrato i campagnoli.
L'ennesima sfida, chiamare la strega per dimostrare di non averne paura, era il segnale.
Era a quel punto che Melissa e Sergio, i due fratelli ideatori di quel terribile scherzo, saltavano fuori. Si erano preparati per tempo: Marco aveva prestato loro la falce del nonno, e Jolanda, la più giovane del gruppo, seppure con riluttanza accettava ogni volta di sottrarre dal suo posto nella teca la Mano dell'Avo, una vera mano umana mummificata che era un cimelio di famiglia. Bastava poi un fanale di bicicletta col suo inquietante bagliore rosso legato attorno al collo di Melissa, e un vecchio mantello nero col cappuccio, talmente lungo da coprirli entrambi, anche quando Melissa saliva a cavalcioni sulle spalle del fratello, di quasi dieci anni più grande. Il tempo, per Jolanda e Marco, di accompagnare il nuovo arrivato tra campi e campisanti, ed era fatta.

Non succedeva mai niente in campagna. Era tutto così pacifico e tranquillo. Ma a volte l'urlo di un ragazzo o di una ragazza di città si levava a spezzare la quiete, e quei noiosi uccelletti per un momento la smettevano di cinquettare e si sollevavano tutti assieme, all'improvviso, in volo.

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