giovedì 22 agosto 2019

Personaggio: Mary Autumn

Stavo riflettendo sul fatto che i miei antieroi sono al massimo bugiardi, ladri o truffatori, quindi sì, disonesti e criminali, ma in nessun caso particolarmente violenti, quando mi è tornata in mente lei. Lei potrebbe essere l'eccezione che conferma la regola, un valido candidato per rappresentare degnamente il lato più estremo di questa categoria:

Immagine creata con Mega Fantasy Avatar Creator di Rinmaru Games


Mary Autumn non è il vero nome di questo personaggio. E anche se può sembrarlo, Mary non è nemmeno (del tutto) umana. Il suo nome è Christie Montero, e la sua storia inizia in un bosco, quando viene trovata da una creatura vegetale che si fonde con lei salvandole la vita.
La creatura si identifica come "figlia della Madre (Terra)", e da quel momento Christie ne acquisisce i poteri, che imparerà a usare a scopo di vendetta, proteggendo allo stesso tempo le ragazze in difficoltà. È questo ciò che fa di lei un antieroe: se pure il risultato pende dalla parte del bene, le motivazioni di Mary Autumn sono egoistiche e personali, e i suoi metodi, le sue punizioni, spesso risultano eccessive rispetto al crimine commesso.
Se si aggiunge che ormai è così poco umana da non provare più rimorso e che si sente un'estranea rispetto al resto dell'umanità, si capisce come Mary Autumn non segua nessuna legge e nessun codice morale che potremmo riconoscere come "cavalleresco" o "eroico".
Per quanto riguarda il suo aspetto fisico, quando non viene raccontata la trasformazione in una creatura arborea, nelle descrizioni scritte è citata solo la sua bellezza. Io la immagino però con addosso i colori del mondo vegetale, e delle foglie autunnali in particolare.


Questi i brani già scritti in cui compare Mary Autumn:
Mary Autumn ottiene la sua vendetta


L'esercizio richiede di scrivere un brano in cui l'antieroe spiega o dimostra le sue motivazioni, o in cui compie un atto contrario agli ideali di un eroe. Ho pensato di lasciarle raccontare come ha iniziato il suo "lavoro" di paladina delle indifese, storia che si colloca prima di quella già scritta.


Non so che cosa sono. Di certo non un eroe, anche se le ragazze che bisbigliano storie su di me parlano a volte con ammirazione delle mie imprese. Soprattutto le ragazze che ho salvato.
La notizia si diffonde più rapidamente di quanto avessi previsto, e sono sempre di più quelle che invocano il mio nome, anche per sciocchezze come uno sgarbo o un tradimento. Non mi occupo di cose del genere, e il fatto che io non compaia ogni volta che mi chiamano contribuisce ad alimentare la leggenda. Sono un po' come Bloody Mary, ammesso che esista realmente. Non posso del tutto escluderlo, dato che esisto io.
Non avevo in programma di diventare una vendicatrice. All'inizio avevo mantenuto il mio nome, avevo identificato il mio aggressore e avevo fatto il mio dovere di testimone in tribunale. Avevo avuto giustizia, come promesso dalla creatura che mi aveva salvato.
Una figlia della Madre.
Questo era ciò che ero diventata anch'io da quella fatidica notte, e ben presto capii che non ero più tagliata per il mondo umano. C'erano volte in cui sentivo il vento e i raggi del sole molto più del mio stesso corpo; e se non stavo attenta, se ero sovrappensiero, i rami degli alberi lungo il viale si piegavano al mio passaggio. Inoltre tutto ciò che aveva contato per me fino ad allora, i corsi all'università, il denaro che guadagnavo nei fine settimana al Red Skin, un nuovo paio di scarpe, era diventato di colpo ridicolo o inesplicabile. Nessuno di coloro che incontravo poteva capire quanto mi sentissi un'estranea, e quanto poco valore attribuivo alle parole. Le parole di un uomo mi avevano condotta lì dove la mia vita era finita. Quindi mi sembrava soltanto la cosa più naturale da fare, smettere di parlare se non quando era strettamente necessario.
Passò l'autunno e venne l'inverno. Vagabondavo quasi ogni notte senza una torcia né un cappotto. Non mi servivano. Nemmeno quando la luce delle stelle era oscurata dalle nubi e una lenta pioggia bianca prese a volteggiare sui tetti e sulle strade, ricoprendo ogni cosa con un candido e gelido lenzuolo. Sentivo il freddo, ma non mi disturbava. Io ero il freddo, com'ero stata il sole e il vento.
Forse fu per una sorta di istinto che ritrovai la strada per il bosco dov'ero rinata. In quel luogo cercai altre figlie della Madre: come il brutto anatroccolo che ero, avevo un disperato bisogno di essere accolta da quelle creature bellissime e vivere per sempre tra loro, come una di loro. Era la mia ricompensa, mi dicevo, il finale perfetto di una favola. Ma la vita non è una favola.
Non ne trovai nessuna, e mi illusi che fosse a causa della stagione sfavorevole, e che sarebbero tornate a popolare il bosco in primavera. Fu allora, mentre stavo tornando indietro, che vidi l'auto e avvertii il grido d'aiuto della ragazza.
Con i finestrini chiusi e la distanza che ancora mi separava da lei, compresi che non era stata la sua voce a raggiungermi, ma qualcos'altro. Forse, la stessa cosa che aveva portato da me la figlia della Madre.
Raggiunsi l'auto in un turbinio di fiocchi di neve. Anche da fuori, avvertivo tutto, la paura, il pericolo, il senso d'impotenza di lei, e la tronfia superbia di chi sa di avere la forza di prendersi tutto ciò che vuole che animava il suo aggressore. Quelle erano emozioni che non volevo più sentire.
Non sarei intervenuta. Stavo per andarmene, quando attraverso il vetro gli occhi della ragazza incrociarono i miei, e le sue labbra si mossero in una muta preghiera. Rividi me stessa in lei, e in quella situazione, un modo di ottenere la vendetta che mi era stata negata.
Aprii la portiera dell'auto, strappai l'uomo al suo sedile e lo gettai nella neve con i pantaloni ancora abbassati. Ero diventata forte, e nessuno avrebbe mai più fatto del male a me.
Le chiavi erano ancora inserite. Le indicai alla ragazza, mentre alle mie spalle l'uomo cercava di rimettersi in piedi sulla neve scivolosa e allacciarsi i pantaloni, urlando bestemmie e minacce.
– Sai guidare? – le chiesi. Al suo cenno affermativo, aggiunsi: – Allora metti in moto e vattene.
– Vieni con me! – mi pregò la ragazza, allungando la mano.
Scossi la testa, con la tempesta di neve che s'infittiva attorno a me. – Ho un lavoro da fare.
Chiusi la portiera prima che l'uomo intirizzito dal freddo potesse rientrare, mi girai e lo spinsi indietro, verso un albero dai rami spogli, le cui punte si mossero a sferzargli il volto. La rabbia nella sua voce era deliziosa e inutile quanto le gocce cremisi del suo sangue sulla neve. Non mi sarei fermata perché me lo ordinava lui, e il fatto che non lo capisse lo rendeva ancora più divertente.
Da aggressore, era diventato una vittima.
La prima volta accadde per caso. Non avevo intenzione di ucciderlo, solo spaventarlo, fargli sentire che cosa si prova a essere completamente inerme, in balia di un mostro che non prova nessuna pietà per la tua sofferenza. Ma mentre lo inseguivo sollevai una radice al momento sbagliato, l'uomo inciampò e batté la testa su un gruppo di rocce che affioravano dalla neve. Non mi scomposi quando capii che era morto.
Aprii la terra sotto di lui e la richiusi sopra. Non lo avrebbero mai trovato, e  il suo corpo sarebbe servito a nutrire gli alberi del bosco. Era il cerchio della vita, nulla di più e nulla di meno.
Fu allora che mi accorsi che non ero più umana. La mia pelle era diventata rigida, bruna e segnata da solchi e scaglie come la corteccia di un albero. Non tornai a casa quella notte, né le successive.
Era lì, in quel bosco, la mia nuova casa.

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