giovedì 27 maggio 2021

Un lavoro qualunque

Mi sembra così strano, ma di racconti ambientati in ufficio ne ho scritti davvero pochi per il blog. Ho dovuto cercarli col lanternino, e anche così, giusto per fare numero ne ho aggiunto uno ambientato in un ufficio "domestico" giusto per la parte in cui è descritta la scrivania. Eccoli qui, i miei racconti in ufficio:

La ragazza del capo (http://lapiumatramante.blogspot.com/2016/12/la-ragazza-del-capo.html)
Eroi di carta (http://lapiumatramante.blogspot.com/2017/01/eroi-di-carta.html)
Il diario del caos (http://lapiumatramante.blogspot.com/2020/04/il-diario-del-caos.html)


Mi sono sempre trattenuta dal descrivere questo lato dell'ambientazione che chiamo "Doubleface", perché... non succede niente, almeno finché gli eventi non precipitano e la storia inizia a farsi interessante anche qui. Ma per questa volta provo a darne un'idea, e scriverò questo brano usando come tappeto sonoro Office Ambience (https://www.youtube.com/watch?v=6sQXSdzk6U4) di Winter Whale.



Immagine liberamente disponibile su 
Pexels sotto licenza Creative Commons Zero.
Foto di Andrea Piacquadio da Pexels


La gente diceva che mi ero accontentata di poco. Che ero intelligente, che potevo aspirare a molto di più, che ero troppo qualificata per quel lavoro.
Solo io sapevo che non mi stavo affatto "accontentando". La verità, anche se nessuno qui mi crederebbe, è che ho due vite, due corpi a disposizione, ma sufficiente attenzione per uno soltanto. E così avevo fatto una scelta, quella più logica.
Avevo scelto di vivere la vita che sognavo là dove la mia peculiarità era nota, riconosciuta come reale e definita un vantaggio, piuttosto che dove sarebbe stata trattata come un'anomalia della mente, una malattia da diagnosticare e guarire.
Così, per poter intraprendere la carriera più remunerativa e prestigiosa di Essensis, quella di Bollatore, avevo bisogno di un lavoro qualunque sulla Terra. Uno di quei lavori ripetitivi, noiosi, semplici, che avrei potuto fare anche a occhi chiusi, o meglio, con quella specie di pilota automatico che prende il sopravvento quando la mia consapevolezza è altrove, nell'altra me, la più giovane Bollatrice di Essensis a essersi affrancata dal suo maestro e ad aver cominciato a lavorare in proprio.
Ma questa non è la storia di Maryna Hìevis, il Furetto dai Capelli Azzurri.
Questa è la storia di Michela Valenti, la stagista. Incastrata tra lunghe e monotone giornate di fotocopie da fare, documenti da riordinare, pinzare e infilare nei raccoglitori ad anelli, dati da inserire nel gestionale al pc e l'occasionale telefonata di routine, al ritmo soporifero delle molte tastiere percorse da altrettante mani, e col fruscio in sottofondo delle penne e dei fogli A4 spostati di scrivania in scrivania accompagnato da ronzii vari e da un coro di sussurri. Ma. Che. Strazio.
Fortuna che non ero lì, la maggior parte delle volte.
Le cose cambiavano quando qualcuno dell'ufficio mi chiamava. Solo che, di solito, non mi chiamava "Michela", né usava il mio cognome. Sarebbe stato meglio, per quanto freddo e impersonale potesse suonare.
– Stage!
Lo odiavo. Mi avevano raccontato, il primo giorno, che avevano preso l'abitudine di chiamare così tutti gli stagisti che si avvicendavano stagione dopo stagione, non avendo voglia né tempo da perdere per impararne il nome. Io, in due vite, avevo accumulato diversi nomi e nomignoli, alcuni scelti da me, e alcuni affibiati da altri. Eppure quello "Stage" proprio non mi andava giù. Mi faceva sentire come se avessi perso la mia individualità e fossi diventata un pezzo sostituibile di un meccanismo, non più me stessa, meno che umana. Già solo per quel fatto era comprensibile che reagissi a chi mi aveva chiamato così con una occhiata sprezzante e un cipiglio imbronciato, senza dover spiegare all'inopportuno disturbatore che probabilmente altrove il ricercato che stavo inseguendo mi era sfuggito, sempre ammesso che non avesse approfittato della mia distrazione per attaccarmi.
– Stage, sempre con la testa tra le nuvole, mi ascolti o no?
Ovviamente era Giovanna la modaiola, la più antipatica di tutto l'ufficio. Sospirai e mi accinsi a prestarle attenzione, confidando che dall'altra parte il mio corpo sapesse come reagire a un eventuale attacco, dopo tutte le sessioni di allenamento con Hashum il Lupo a cui mi ero sottoposta. Su Essensis, avere un pilota automatico che non mi uccidesse restandosene inerme di fronte a un pericoloso criminale era essenziale. Sulla Terra, il massimo che rischiavo era un taglio da carta. O almeno era quello che credevo, prima che Giovanna iniziasse a farmi una ramazina al vetriolo di fronte a tutto l'ufficio per quello che io ritenevo un errore banale e facilmente sistemabile. In fondo non era mai morto nessuno per una cifra sbagliata, no?
Ma evidentemente quelle persone non si erano mai trovate davvero in pericolo, con un'arma puntata contro o con le mani di qualcuno strette alla gola.
Il silenzio calò nell'open space solitamente brulicante e frenetico, mentre le molte mani si sollevavano dalle tastiere, le penne più non scorrevano e i fogli smettevano di frusciare nel loro itinerario da una postazione all'altra. Tutti ascoltavano, avidi di pettegolezzi, l'ultimo capro espiatorio che veniva arrostito a fuoco lento.
Io, intanto, me ne tornavo su Essensis.

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